ALESSANDRA NOVAGA
Latina, Circolo H, 18 febbraio 2017.
Se poco poco siete avvezzi alle letture musicali, quello di Alessandra Novaga è un nome che non vi sarà di certo sfuggito: il suo Movimenti Lunari, pubblicato lo scorso anno per Blume, ha attirato grossi consensi da stampa e musicisti, nonostante non sia quello che si dice un disco di facile comprensione. Alessandra viene da una formazione accademica e, attraverso il passaggio per il teatro, è approdata a uno stile chitarristico personalissimo, scarno, ai limiti del minimalismo. È da poco uscito Fassbinder Wunderkammer, dedicato al cinema di Rainer Werner Fassbinder e al suo partner in crime musicale, il compositore Peer Raben: Alessandra questa sera porta però sul palco non le cose nuove, bensì i due brani tratti dal disco del 2016. “Non perché Fassbinder Wunderkammer non sia agevole da suonare dal vivo”, ci tiene a precisare, “anzi, è stato pensato proprio per una sua esecuzione dal vivo”. Mi spiega che non ritiene concluso il suo impegno su quelle composizioni e che sta continuando a lavorarci su proprio perché desidera che la restituzione dal vivo abbia qualcosa di diverso e in più rispetto al disco. Alessandra, anche se non ci vive più, è originaria proprio di Latina e la nostra piacevole chiacchierata parte proprio dal capoluogo pontino e dai suoi esordi alle prese con le sei corde.
A che età hai cominciato a suonare la chitarra?
Alessandra Novaga: Avevo dieci anni, ho iniziato in maniera assolutamente “normale”. Volevo suonare uno strumento, avevo una chitarra a casa e mi ero imparata a orecchio la melodia de “Il Padrino”; mi sono iscritta qui a Latina ad una scuola non avendo assolutamente idea di cosa fosse la chitarra classica. Fin dall’inizio non volevo fare gli accordi, non ho mai avuto quella vena. Sai, lo strumento concepito in maniera popolare, le canzoni… sì, tre o quattro canzoni le facevo, però non me ne è mai fregato molto.
Quindi eri proprio innamorata del suono della chitarra…
Non saprei, so solo che alla prima lezione il maestro mi disse: guarda, qui si fa chitarra classica, ti devi far crescere le unghie… e io sono entrata subito in questo mondo, con estrema naturalezza. Ho studiato qui a Latina fino ai miei sedici anni, poi mi ricordo di aver fatto un viaggio a Siena all’Accademia Chigiana, che è un po’ il tempio della musica classica in Italia, dove fanno corsi di perfezionamento con questi grandi nomi da tutto il mondo, allievi ugualmente da tutto il mondo, e lì ho avuto la folgorazione, ho conosciuto quello che sarebbe stato il mio maestro, l’ultimo che ho avuto. Il punto è questo: io non so se dirti se allora ero innamorata dello strumento, io so che se oggi suono è per una motivazione che non ha niente a che fare con quella di quando avevo dieci anni. Penso e credo che chiunque si dedichi ad un’attività artistica non lo faccia per lo stesso motivo per cui ha cominciato e, per assurdo, più cresco, più faccio questo lavoro e più mi rendo conto che è sempre anche un po’ un caso il fatto che io mi occupi di musica… cioè, a me piace la musica, è ovvio, non è neanche da mettere in dubbio questa cosa, però io non ti saprei dire se a me piace più il cinema o la letteratura. È semplicemente quello che mi sono trovata a fare.
Nei tuoi dischi ti piace lavorare su composizioni altrui. lasciando, mi è sembrato di capire, grosso spazio alla tua interpretazione: in questo senso, puoi parlarci della genesi del tuo primo disco “La Chambre Des Jeux Sonores”?
Mi piace lavorare sulle cose altrui perché io non sono una compositrice, o lo sono in maniera molto limitata. Ad esempio, quando mi capita di scrivere per il teatro, quello mi piace molto farlo, lì mi piace avere una mia autorialità. Lì è più “semplice”, perché riesco a gestire, in termini compositivi, dei temi, ampliarli e svilupparli; però non mi è mai interessato, o meglio, non mi è ancora mai interessato comporre delle musiche mie da suonare in concerto o in un disco. Una cosa che ho cercato ne “La Chambre Des Jeux Sonores”, che è stato il primo lavoro che ho cercato di strutturare nella mia “nuova vita”, è stata quella di avere un appoggio di cinque compositori, amici fra l’altro, tutti diversi fra loro, con provenienze molto diverse: ce n’è uno superaccademico, ce n’è uno newyorkese molto avantgarde, del giro zorniano, c’è una cara amica, anche lei accademica, ma di un giro più sofisticato dal punto di vista classico, un po’ in bilico fra diversi mondi, poi c’è Sandro Mussida che è il mio compagno d’avventure di questi anni, siamo un po’ cresciuti insieme da un punto di vista artistico, e lui è ancora un’altra cosa perché – pur venendo da studi classici – ha messo i piedi in tanti generi. E poi il più stravagante di tutti, Francesco Gagliardi, che è l’autore di uno dei due pezzi che suonerò stasera: lui non è nemmeno un musicista, si occupa di performance, ha tutta una sua formazione filosofica teatrale. Io volevo delle partiture grafiche, non volevo note: l’unico pezzo un po’ notato, e che suonerò anche stasera, è quello di Sandro, ma è una notazione un po’ particolare. Io ho chiesto loro “scrivetemi pezzi dei quali voi trovate le sonorità: voglio il suono, voglio un gesto, ossia una scrittura che inventate voi, voglio una struttura, però voglio essere libera di muovermi al suo interno”. A me non interessa la chitarra elettrica suonata con le note: c’è tanta letteratura di musica contemporanea per chitarra elettrica che non trova assolutamente giustificazione di essere per uno strumento elettrico. A questo punto preferirei suonare la chitarra classica e suonare un repertorio più consistente che non fare la cosa strana con lo strumento elettrico. Ti assicuro che non è assolutamente giustificata una cosa del genere; a parte Trash Tv Trance di Fausto Romitelli che per me rimane insuperata, il pezzo più importante del repertorio classico contemporaneo.
C’è questo termine camera che ritorna nel titolo del tuo ultimo disco: è una casualità oppure l’obiettivo è l’evocazione di un particolare immaginario?
È una casualità: “La Chambre Des Jeux Sonores” è l’ultima frase che ho avuto da un amico che non c’è più, è l’ultimo segno che mi è arrivato da lui, e l’ho trovata comunque attinente. Nemmeno “Fassbinder Wunderkammer” è mio, me lo ha suggerito un’amica: volevo il nome Fassbinder nel titolo, lei se ne è uscita con “Fassbinder Wunderkammer” ed è andata bene così. Io ho regalato a lei titoli per i suoi spettacoli e lei regala a me titoli di dischi. Poi sì, ho notato questa cosa della camera che si ripeteva: vai a capire, io trovo che niente sia perfettamente casuale, però manco a trovarci troppi significati…
A questo punto posso pensare che sia la tua musica ad ispirare determinate suggestioni…
Può darsi… Anche Movimenti Lunari, il secondo disco, pensandoci bene ha un titolo abbastanza fortuito: ero a Londra e dovevo in ventiquattr’ore trovare il titolo. Ero in un taxi alle cinque del mattino e dovevo arrivare all’aeroporto, stavo attraversando la città e in cielo c’era una luna gigantesca: volevo un titolo in italiano e così è venuto fuori “Movimenti Lunari”.
Movimenti Lunari, nonostante non sia un disco di facilissima comprensione, ha attirato molta attenzione su di sé. Io trovo che sia abbastanza criptico: che idea c’è dietro? C’è un legame fra le due tracce che lo compongono?
Anche quella è un’idea che è venuta a chi ha prodotto il disco: mentre il precedente è totalmente una mia idea, dietro “Movimenti Lunari” c’è Fabio Carboni, che appunto – oltre a Die Schachtel – ha anche quest’etichetta più piccola, Blume, dedicata al lavoro di solisti che suonino uno strumento, in cui cioè l’elettronica ha un ruolo molto marginale, e che è basata su un’idea estetica molto particolare, sul monocolore. Cose molto belle. A Milano Fabio gestisce assieme alla moglie questa struttura, dove dentro c’è anche Soundohm, ed io avevo fatto lì da loro La Chambre Des Jeux Sonores. I due brani che compongono Movimenti Lunari, “In Memoria” e “Untitled, January” erano già sulla “Chambre Des Jeux Sonores”, seppur in forma ridotta. La sera eravamo a cena e Fabio me l’ha buttata lì, mi dice “io sono attratto da quel tipo di musica lì, da questa musica ripetitiva, che non sviluppa mai… ho avuto un’intuizione: ci sono quei due pezzi, prova a ripensarli in modo che possano stare uno per facciata”. Io ho detto subito sì, ho pensato “beh, tentare non costa niente”. E poi l’ho fatto ed ho capito che aveva avuto veramente una bella intuizione e io che già pensavo fosse un lavoro vecchio, mi dicevo “adesso devo risuonare queste cose, chissà se mi andrà…” e invece mi va talmente tanto che me lo porto ancora appresso. È un disco che per me è fisicamente molto potente, rifarlo è un esperienza nel suono: non sono pezzi tecnicamente difficili, sta tutto nella concentrazione. Tutti e due i brani, anche se sono completamente diversi, hanno quest’idea di un suono che si espande e si sedimenta in un accumulo che deve essere gestito e che crea delle pulsazione. Mi piace tantissimo suonarli, è una vera e propria esperienza fisica. Ecco, “Movimenti Lunari” è proprio un disco suggerito.
Mi sembra di capire che la tua arte è molto aperta ad apporti esterni…
Mi fido delle persone che stimo. Io non avrei mai pensato di iniziare a scrivere ed una delle esperienze di passaggio, una di quelle che mi ha fatto iniziare a pensare in un altro modo è nata dal rapporto con Giuseppe Isgrò, il regista di questa compagnia teatrale molto, molto interessante chiamata Phoebe Zeitgeist, dal nome di un’opera di Fassbinder, fra l’altro. Lui voleva scrivere questo spettacolo tratto da “La Mostra Delle Atrocità” di J.G. Ballard e io sono un’amante feroce di Ballard, ho letto tutto, per me è stato quasi uno scrittore di formazione. Io e Giuseppe siamo amici e quando ho saputo che voleva realizzare questa cosa ho detto “wow, fantastico! Se vuoi ti do anche un po’ di libri…”. Dopo una settimana mi ha chiesto se volevo scrivere le musiche per Ballard: lui è un ragazzo di cui mi fido molto artisticamente parlando, ed ha anche delle competenze musicali molto forti, sapeva che io comunque allora mi occupavo solo di classica, non ero ancora passata all’elettrica e facevo tutt’altro rispetto a quello che mi si chiedeva. Io ho accettato, l’ho fatto non tanto perché pensavo di essere in grado di fare quel tipo di lavoro, ma pensando che se lui me lo chiedeva, aveva visto qualcosa e questo è stato un po’ il primo grosso stravolgimento nel mio modo di fare musica. E da lì anche Elena Russo Arman, che è una delle attrici con cui lavoro più spesso, una delle attrici dell’Elfo, quando ho cominciato a suonare la chitarra elettrica, quando mi ha sentito fare quelle cose lì, ha deciso di tirarmi dentro questo spettacolo su Emily Dickinson, di cui lei è una grande conoscitrice. Quello è stato lo spettacolo in cui ho composto di più e stavo anche in scena, cosa che mi piace tantissimo, molto faticosa ma anche molto formativa.
Personalmente ho imparato ad amare il cinema di Fassbinder attraverso le trasmissioni notturne di Fuori Orario e trovo che il tuo ultimo disco abbia proprio il pregio di evocare quel tipo di visione, offuscata dall’ora tarda o da altre circostanze: quando viene fuori il tuo amore per il regista tedesco? Come nasce l’idea di dedicargli un disco?
Il mio amore per Fassbinder nasce a diciassette anni. I primi film me li sono visti di mattina quando facevo sega a scuola e mi andavo ad affittare le videocassette.
Quindi tutt’altro da quello che mi ero prefigurato…
Sì. Ricordo ancora che “Veronika Voss” è stato il primo che ho visto: mia madre insegnava e la mattina a casa mia non c’era nessuno, quindi io uscivo, invece di andare a scuola andavo ad affittarmi i film, li guardavo e poi li riportavo. Mi è sempre piaciuto moltissimo. E poi ci sono state altre circostanze che mi hanno legato alla sua figura: io sono molto vicina a quelli del Teatro Dell’Elfo di Milano e loro sono quelli che hanno portato il teatro di Fassbinder in Italia. Fra le altre cose ho avuto modo di assistere al festival che hanno organizzato, ormai quindici anni fa, per l’anniversario della morte, con proiezioni di film, messa in scena degli spettacoli e la presenza dei collaboratori di Fassbinder sopravvissuti, fra cui appunto Peer Raben, Ingrid Caven… alla Caven, che poi è stata anche sua moglie, ho visto fare uno dei più bei concerti a cui abbia mai assistito: all’epoca era già una signora di una certa età, credo avesse sui sessantacinque anni, vestita da sera, bellissima, accompagnata solo da un pianista in stile Broadway. Il repertorio era però Raben, Kurt Weill… e lei da sola che faceva delle cose pazzesche, si buttava a terra: eccezionale anche come performer. Come è nato il disco? Una delle più grandi frustrazioni che avevo sviluppato negli anni in cui mi occupavo solo di musica classica era data dal fatto che leggevo, guardavo film, andavo a mostre – lo faccio tuttora – ma allora non riuscivo a far entrare tutto ciò in quello che io facevo. Anche se vado a vedere, ad esempio, una mostra che mi colpisce, che mi cambia dentro, io poi non so quanto effettivamente nel suonare una suite di Bach il suono cambi. Dentro di me c’era il desiderio, ancor più di fare cose come La Chambre Des Jeux Sonores o Movimenti Lunari, che pure mi corrispondono e sento come lavori totalmente miei, di fare dischi come quest’ultimo, in cui torno anche a suonare la chitarra classica, ma che è un disco volutamente scarno e semplice come il lavoro di Fassbinder a cui si ispira. All’inizio era molto più ricco di suoni, l’ho registrato due volte, non è stata una cosa così semplice, non tanto dal punto di vista della tecnica quanto da quello della struttura. L’ispirazione è stata l’aver lavorato quattro anni fa con questo gruppo teatrale, Phoebe Zeitgeist, in un ciclo di performance che si ispiravano a Fassbinder: Giuseppe Isgrò mi ha coinvolto in questa cosa e io ho avuto l’idea di ricorrere alla musica di Peer Raben. Raben ha scritto la musica di tutti i film di Fassbinder, il loro era proprio un binomio come quello Lynch-Badalamenti o Fellini-Rota: se conosci il cinema di Fassbinder hai ben presenti quelle melodie, quelle cose storte. Certe volte uno non ci pensa alla musica, io le prime volte che vedevo i suoi film non mi soffermavo mica sulla musica…
In effetti devo confessarti che io non conoscevo Raben come nome, però poi, andandomelo a sentire nel tuo disco, ho detto “ecco Fassbinder!”.
È pazzesco, è come se fossero la stessa persona, il loro è un connubio fortissimo.
Per la registrazione dei campioni dei film come pure della tua voce nell’ultima traccia hai utilizzato un approccio estremamente lo-fi: ce ne puoi parlare?
Terribilmente lo-fi, per la voce ho utilizzato un walkman: loopo il giretto armonico, poi stacco la chitarra e attacco il jack dentro il walkman, metto in modalità registrazione e con il pedale del volume escono fuori dei feedback meravigliosi, assolutamente analogici: si capisce subito che vengono da una scatoletta, mi piacciono da matti. Canto dentro al microfonino, stando ben attenta perché assieme alla voce si sente il feedback, e loopo anche qui: quando ho raggiunto una quantità sufficiente di suono mando indietro e riproduco facendo dei semplicissimi giochetti con la rotella della velocità. Questa è una cosa che riesco a fare anche in concerto. È tutto molto lo-fi, anche i pezzi dei film, li ho registrati con l’iPhone e poi li mando mettendo il telefono sopra i pick up della chitarra; loopo e poi ci lavoro sopra.
Tu da che tipo di ascolti provieni? Che musica ascoltavi e che musica ascolti?
Ti posso dire cosa non ho mai ascoltato: il rock. Sono abbastanza ignorante in materia; anche dal punto di vista dello strumento, io la chitarra rock non so cosa sia, non ho riferimenti, zero. In definitiva il rock non mi è mai interessato. Posso dire di aver ascoltato sempre quella che dal mio punto di vista considero tuttora bella musica, non posso dire, come spesso capita, “madonna mia guarda che mi ascoltavo”, sono sempre stata abbastanza ricercata. Ho ascoltato chiaramente valanghe di musica classica. Quando ero più ragazzina ascoltavo anche i musical, quelli belli, avevo un carissimo amico qui, di Latina, che andava a Londra e mi spacciava tutta una serie di cose di quel tipo, Sondheim, questi cantanti come Mandy Patinkin, roba che qui non è mai stata troppo trattata. Poi mi piace la canzone americana, lo standard americano, mi evoca subito determinate atmosfere. Mi piacevano, sempre da ragazzina, Leonard Cohen, Paolo Conte, Jacques Brel tantissimo: la canzone francese mi è sempre piaciuta un sacco. E poi ho cominciato ad ascoltare il jazz, un po’ tardi per la verità, sia quello mainstream, Miles Davis, Coltrane, Chet Baker, sia il free: uno che mi piace un sacco è Mal Waldron, che è questo pianista jazz non tanto conosciuto. Anche su di lui stavo iniziando a fare un lavoro, considera però che io non ho mai suonato jazz. E poi, da quando ho intrapreso questa mia “nuova vita”, ho cominciato ad ascoltare tante cose che non conoscevo, tanti chitarristi soprattutto, ed ho cominciato a viaggiare per ascoltare: vado proprio a studiare, mi rendo conto che il mio approccio è quello. Un chitarrista che io ammiro tantissimo è Marc Ribot: per me è uno dei musicisti più intelligenti che ci siano, a dispetto dell’idea che sia uno che fa tutto, che fa troppo. Mi è capitato di vederlo in diverse situazioni e, soprattutto da solo, è uno che suona a livelli pazzeschi, ci sta sempre dentro e si diverte sempre tantissimo.
Hai citato Marc Ribot fra i chitarristi che più stimi: ci sono chitarristi che pensi abbiano influenzato in qualche maniera il tuo modo di suonare?
Io non sono una fanatica della chitarra: a me la chitarra piace, tanto, ma non così tanto. Per me è un mezzo, ne sono attratta, mi piace fisicamente, mi piacciono le corde e apprezzo chi suona in modo molto fisico. Per esempio non ho mai amato il virtuosismo, chitarristi che trovo tecnicamente eccezionali ma mi smuovono zero. Il mio modo di suonare è stato influenzato sicuramente dai miei maestri, le persone con cui ho studiato in passato. Posso dirti che già quando ancora vivevo nel mondo classico c’è stato un chitarrista che mi ha particolarmente colpito, con cui ho fatto anche una lezione, ed è un chitarrista scozzese che si chiama Paul Galbraith e che suona la chitarra come se fosse un violoncello: si è fatto costruire questo strumento intelligentissimo, a otto corde, con in più un basso e un acuto, cosa che non fa mai nessuno, con il puntale proprio come fosse un violoncello, e lui non suona un repertorio chitarristico, ma fa solo trascrizioni da pianoforte: Brahms, Bach… Lui l’ho conosciuto personalmente ed è la prima persona che mi ha fatto pensare “ecco, questo è uno che ha trovato una strada sua”, uscendo dallo strumento pur continuando a suonarlo con questa sua tecnica particolare; non è un cialtrone, uno che fa la cosa strana così per farla, è uno che già a sedici anni era a livelli pazzeschi, vinceva concorsi con Segovia in commissione, senonché ha avuto molto presto una crisi fortissima di identità da cui è uscito lavorando per anni con un maestro che insegnava fenomenologia della musica, quindi una cosa che c’entrava poco con la chitarra. E da lì si è risollevato: è una persona meravigliosa, molto umile, di quelli che quando inizia il concerto dici “ma è iniziato?” fino a che ti cattura proprio, ti travolge. Non ha questo atteggiamento istrionico, che è un po’ quello che avevano i miei maestri, per la serie “mò ti faccio vedè chi sono io”. Anche il fatto di non eseguire il repertorio è importante: la trascrizione ti porta a fare una cosa bellissima che è uscire dallo strumento, per cui trovi delle soluzioni che non sono tipiche ed è quello che io cerco. Nonostante a me piaccia la chitarra cerco di uscirne, pur suonandola: per non incappare in gesti, e quindi suoni, prevedibili. Poi se ci riesco non lo so, però è quello che cerco di fare. Volendo ritornare a “Fassbinder Wunderkammer”, per me è stato un grande divertimento fare questo disco, ma è stato anche un po’ motivo di crisi: io in questi ultimi anni ho aspirato ad uscire da questa mia pulizia del suono, a trovare dei suoni un po’ più zozzi, pur sapendo che per la mia formazione il suono mi viene pulito, è una cosa innata. E qui che dovevo suonare cose anche molto semplici, pulite, sentivo di non riuscire a farlo più come un tempo: quindi c’era una parte di me che diceva “non sei più capace, non sei più quella di prima” ed un’altra che diceva “ma non sei contenta? Era proprio quello che stavi cercando”. Da un lato ero piccata per non riuscire più a fare certe cose ed è stato molto strano, dall’altro mi sono scoperta ad essere un’altra, e questo mi è piaciuto.
I tuoi progetti per il futuro?
Devo comporre le musiche per uno spettacolo che si terrà a maggio all’Elfo, “The Juniper Tree”, e c’è una collaborazione di cui sono straentusiasta, con Stefano Pilia: ci siamo inseguiti per un po’, lui forse è il chitarrista italiano che mi interessa di più, e abbiamo deciso di fare questa cosa insieme. Pilia è una persona seria, profonda, è proprio un piacere averci a che fare, e quindi negli ultimi tempi ci siamo visti praticamente tutti i fine settimana, a Milano da me o a Bologna da lui, per lavorare su questo progetto che arriverà.
Live report
Il live è diviso equamente fra i due pezzi di Movimenti Lunari. Ciascun brano ha una durata di venti minuti, cronometrati (il pensiero va inesorabilmente a John Cage) con l’iPhone per ingabbiare in qualche maniera suoni che potenzialmente potrebbero espandersi all’infinito: Alessandra mi ha confessato che, spesso e volentieri, quando sente che il drone sta montando su bene, le capita anche di sforare di qualche minuto, non è così tassativa. La prima parte è dedicata a “In Memoria”, una composizione del violoncellista Sandro Mussida, con il quale la chitarrista collabora da tempo: parte fondamentale dell’esecuzione è affidata ad una tecnica eterodossa e alla gestualità estremamente attenta e misurata. Nel bagaglio tecnico di Alessandra trovano posto anche alcuni rudimenti di viola da gamba, ispirandosi ai quali la chitarra viene tenuta in posizione praticamente verticale, capotasto mobile al centro della tastiera e le mani che, fra strappi alle corde e colpi dietro il manico dello strumento, plasmano suoni che si affastellano in maniera quasi fisica in una sorta di straniante paesaggio lunare. L’espressione sul volto della chitarrista la dice lunga sul grado di concentrazione che una performance del genere richiede e sul lavoro di ricerca sotteso ad un tale discorso musicale. La seconda parte, riservata a una suggestione di Francesco Gagliardi, è ancora più minimalista: qui la Novaga dà forma ad un drone intensissimo e scuro appoggiando l’ebow sulle corde ed agendo sulle chiavette della chitarra in modo da creare delle minime dissonanze: la sensazione di staticità insita nella composizione viene continuamente messa in discussione dalle piccole decisive variazioni nell’accordatura. Sembra di trovarsi di fronte ad un dipinto di Mark Rothko, in cui sono le proporzioni fra le campiture e il contrasto fra tinte simili a determinare la creazione artistica. Il pezzo, mi spiega Alessandra, è suonato interamente su un’unica indicazione: una foto di un bosco virata sul grigio, scattata dallo stesso Gagliardi, su cui è scritto semplicemente “One drone, any drone, any duration”. Una suggestione che lei definisce come molto forte ed assolutamente autentica. È proprio la ricerca dell’autenticità il fondamento della musica di Alessandra Novaga, suoni che scaturiscono dal profondo, che passano attraverso un’esperienza che travalica sfere differenti e arrivano all’orecchio e all’anima forti e diretti, siano essi un drone di venti minuti contati, siano note crude pensate e messe in fila per un cinema assurdo.