GIULIO ALDINUCCI, Disappearing In A Mirror
Due anime opposte, talmente diverse da completarsi a vicenda. Borders And Ruins (2017) e Disappering In A Mirror (2018), il dittico di Giulio Aldinucci pubblicato dalla berlinese Karlrecords, come il bianco e il nero dello Yin e dello Yang. O viceversa. Non c’è bene senza male. Non c’è luce senza buio. Un manifesto di due pagine, di contrasti, di alchimie perfette. Principale tratto comune la grande sensibilità artistica del sound artist toscano, pronto alla definitiva affermazione su scala internazionale. Un anno dopo Borders And Ruins, coi suoi mirabili paesaggi sonori in bilico tra squarci elettronici e field recordings, Disappearing In A Mirror offre l’ennesimo spaccato di una ricerca sonora che, al di là del concept, continua a essere focalizzata sulla migliore traduzione possibile di emozioni e percezioni in note dal grande impatto.
Le frontiere, le rovine e lo specchio. Dal macro al micro. Dal plurale al singolare. Misteri e tensioni. Sacro e profano. Non è facile separare il proprio io dalla massa. Non è semplice contemplare il proprio riflesso sulla superficie di un vetro. Scomparire è una possibilità dei tempi moderni. Valicare le porte della realtà è un istante. Il cambio di prospettiva tra questo disco e il suo predecessore è netto. All’orizzonte l’incerta definizione identitaria suggerita dal nuovo titolo. Sette brani per esplicitare uno smarrimento interiore. L’adozione di un “canone” ambient cruciale per il continuo raggiungimento di un equilibrio tra le parti. Armonie e bordoni. La raffinatezza e la saturazione. Cori e distorsioni. Il pathos e il riverbero. Un primo tentativo di sintesi duale si concretizza con “The Eternal Transition”, un’apertura sia solenne, sia a strati. Di rumori e di violini.
Gli elementi sonici e quelli melodici pulsano in modo irregolare. L’alterazione dell’aspetto e della limpidezza ha inizio. Gli alti volumi e, soprattutto, le voci femminili di Jammed Symbols sono strumentali per un immediato contrasto. La granulare complessità di fondo è garantita da una manciata di frammenti vocali abilmente combinati in una nuvola di suoni, pronta a elevarsi verso un l’infinito. “Notturno Toscano” si configura, invece, come una placida e sommessa introspezione, solcata da sporadiche inquietudini ambientali. Un susseguirsi fitto e veloce di piccoli rumori secchi, di battiti leggeri, tanto decisi quanto insistenti, diviene presto l’ennesima testimonianza della grande creatività di Giulio Aldinucci e, parimenti, del suo padroneggiare un sintetizzatore modulare. L’alternativa all’ipnosi derivante da ronzii e fruscii è racchiusa tra le pieghe di “Aphasic Semiotics”.
Un’imponente fusione di trazioni nel vuoto e trame corali per un momento sia di raccoglimento che di riflessione non solo sull’aspetto immateriale del titolo, oltre l’ascolto e la visione, ma sull’idea che pragmatica, semantica e sintattica siano ormai incapaci di esprimersi attraverso la parola o la scrittura, sospendendo il loro giudizio sulla natura delle cose, a seguito di una autentica inconoscibilità della realtà. L’immaginifica frattura tra segni linguistici e contemporaneità raggiunge il suo apice in “The Tree Of Cryptography”. Aspra come la barriera alla comprensione. Il coro di “The Burning Alphabet” mitiga l’alone di oscurità. La precisa suddivisione in segmenti deformati riallinea l’album ai contenuti di Borders And Ruins. La conclusione è affidata a “Mute Serenade”, ossimoro dai rimandi celestiali, quando le voci si fondono e si confondono su un orizzonte ora blu cobalto.