Alberto Pinton: senza quasi respirare
Alberto Pinton è un polistrumentista (sassofoni, clarinetti, flauti) veneto residente in Svezia da una vita. La sparo subito: nulla da invidiare a un Ken Vandermark o a un Mats Gustaffson. Ampiezza di orizzonti, talento, libertà di approccio e vastità di orizzonti. Personalmente l’ho conosciuto con il suo ultimo disco in sestetto (trovate la recensione uscita su Il Manifesto qui). Mi ha raccontato così tante cose che ho dovuto spezzare l’intervista in due parti (la prima la potete trovare su un’altra testata, qui)
Mi parli del tuo approccio allo strumento? Qual è stato il tuo percorso, e quali ritieni siano stati eventuali rivelazioni che hai avuto lungo il tuo oramai lungo cammino?
Alberto Pinton: Comprai il mio primo sax contralto alla tenera età di 18 anni, dopo aver appunto ascoltato praticamente solo jazz già per un certo numero di anni (era già diventata un’ossessione in effetti). Al tempo il jazz veniva presentato regolarmente, sia a Mestre che a Venezia. Dopo aver fatto due note di numero e capendo subito che non c’era modo di imparare senza una guida, decisi di suonare il campanello (letteralmente!) a Renato Geremia, che sapevo abitava in via Beccaria a Marghera, dove sono cresciuto. Dopo un certo numero di trattative (non voleva allievi privati) Renato decide di darmi lezioni di strumento in cambio di lezioni di inglese, da parte mia, a uno dei suoi figli. Da quel momento in poi immersione totale, letteralmente! Ore e ore di studio, tutto il giorno, ogni giorno, per anni. Fast forward al 1987, già trasferito in Svezia (novembre 1984, per motivi sentimentali e molta curiosità di vedere come possono funzionare le cose in un altro Paese) quando ricevo una borsa di studio completa dalla Berklee Summer School a Perugia, durante Umbria Jazz, quando tra l’altro mi viene offerta l’opportunità incredibile di suonare con l’orchestra di Gil Evans, per sostituire John Surman nell’ultimo concerto della settimana. Zero prove, tuffo nell’incognito. Al tempo avevo già iniziato a suonare il sax baritono, che ormai consideravo il mio primo strumento. Seguono due anni di studio e un Bachelor Degree Summa Cum Laude a Boston (1988-1990) e dopo un’altra pausa e ulteriori esperienze di un paio di anni a New York, dove, grazie ad un’altra borsa di studio, ottengo un Master’s Degree alla Manhattan School of Music.
Come funziona il procedimento di composizione?
Preferisco di solito lasciare che la composizione si “sgomitoli” da sola, a volte lascio stare anche il decidere chi improvvisa, per quanto tempo, se finire il brano con la parte A o B o C; impartisco poche istruzioni, a volte niente, ai musicisti coinvolti, e di solito quelle che poi uso nelle mie produzioni sono proprio le tracce dove l’inaspettato si è creato da sé. La composizione è lì, tutta intera, ma in più c’é tutto un mondo improvvisato (che coinvolge anche l’interpretazione dello scritto, il fraseggio, i tempi) che si è materializzato al momento. Secondo me è anche quello che dimostra il peso tematico di una composizione. Se i musicisti coinvolti trovano sentieri nuovi e propongono idee proprie vuol dire che c’é materiale che dà ispirazione.
Ho avuto modo di recensire in altra sede il tuo ultimo disco col Sestetto Contemporaneo, Layers: ce ne vuoi parlare? E quali sono i progetti che hai attivi al momento e su cosa stai lavorando per il futuro?
L’Alberto Pinton Sestetto Contemporaneo è nato come risposta ad una data di concerto offertami dal già precedentemente nominato Glenn Miller Café. Volevo scrivere materiale nuovo per un gruppo più esteso rispetto al quartetto di Noi Siamo, e questa volta con la voce come un elemento della sezione fiati. Ho chiesto a mia figlia Selma se la cosa le interessava e mi ha risposto che sì, senz’altro! Gli altri compagni di progetto sono Mats Äleklint al trombone, Mattias Ståhl al vibrafono, già presenti nell’Alberto Pinton Quintet dei primi anni del nuovo millennio, Vilhelm Bromander al basso e Konrad Agnas alla batteria, sezione ritmica a cui si può dare qualsiasi tipo di materiale e ne estrapola tutto quello che c’è dentro e di più. Il concerto andò bene per cui decisi di registrare, e quello che hai recensito tu (ti ringrazio ancora delle parole positive!) è il risultato. Riallacciandomi a quello che ho detto sui metodi compositivi, abbiamo registrato due giorni e provato diverse versioni degli stessi brani. Io mi sono portato vari fiati (né il flauto basso né il clarinetto basso erano previsti nelle composizioni originali) e poi ho scelto le take più rappresentative del suono di gruppo e delle composizioni.
Al momento sto scrivendo musica per la seconda registrazione con il trio (la prima è uscita in digitale su Bandcamp, si intitola RÖD, che in svedese vuol dire rosso, il colore che rappresenta la mia linea politica di sempre) e poi ho scritto materiale nuovo per settetto, che voglio completare. Il trombettista Niklas Barnö (già membro del quartetto Noi Siamo) sostituì Mats in uno dei concerti con il sestetto, così ho deciso di riunire tutti lo scorso febbraio, quando abbiamo suonato un concerto qui a Stoccolma. Quando le cose ritorneranno normali continueremo a provare! Inoltre ho da molto tempo in progetto di arrangiare la mia musica per big band. Non necessariamente scrivere cose nuove, ma scegliere delle composizioni che ancora mi soddisfano, ed ampliarle per quell’organico che in fondo conosco bene. Il futuro sarà testimone se riuscirò a portare a termine questo ambizioso progetto!
Inoltre negli ultimi anni ho collaborato con il chitarrista/compositore/arrangiatore/tecnico del suono/tuttofare Johan Berke, un tipo tanto creativo quanto lontano dai radar: stiamo preparando il secondo volume di un lavoro di arrangiamenti jazz della musica dei Weather Report (qui il link al primo).
Scorrendo la tua discografia vedo che non hai inciso dischi in solo o in duo: c’è una ragione precisa? Hai bisogno di almeno altri due musicisti per creare il dialogo necessario allo svolgimento della tua musica?
Il solo? Il solo mi affascina da sempre! Dai concerti visti live con Steve Lacy, al doppio vinile For Alto di Anthony Braxton, quasi consumato ai tempi che furono, al Birthright di Hamiet Bluiett, Evan Parker, a tutti i colleghi contemporanei che ammiro e apprezzo nella loro ricerca (Marco Colonna e Mats Gustafsson sono due tra tanti). Ho cartelline piene di appunti e linee, ma non ho ancora trovato il momento adatto per farlo. Colgo la tua domanda come spunto per darmi da fare, tra l’altro in questo periodo di social distancing la cosa è praticamente automatica!
Una domanda legata all’attualità: come ve la state vivendo a Stoccolma l’epidemia? Qua arrivavano notizie di tutto aperto, di un approccio totalmente diverso dal nostro.
La Svezia ha pubblicato e pubblica quasi giornalmente delle direttive di vita quotidiana a cui la gente deve adattarsi. Non è proprio la realtà, che tutto è aperto e ognuno fa quello che crede. Ci sono già da qualche settimana in ogni negozio circoli per terra a un paio di metri l’un dall’altro dove stare quando si è in coda. Gli Agli anziani si consiglia di stare a casa il più possibile, al minimo segno di raffreddore o che sia è obbligatorio stare a casa per tutti, in negozi più piccoli e farmacie non si entra in più di cinque alla volta… Poi i cittadini menefreghisti ci sono anche qui come in tutto il mondo, ma credo che per il momento i dati stanno dando ragione ai provvedimenti presi dalle autorità competenti.
Cinque dischi da isola deserta ed una collaborazione dei sogni?
Solo cinque? Sarà dura!
Roscoe Mitchell and the Sound and Space Ensembles, Black Saint. Lí c’è tutto!
Joe Henderson, Mode for Joe, Blue Note.
John Coltrane Coltrane’s Sound, Atlantic.
Steve Reich Octet, Music for a Large Ensemble/Violin Phase, ECM.
Tim Berne, Mutant Variations, Soul Note.
Mi rendo conto di non aver messo niente di recente, il che può far pensare. Ascolto musica ogni giorno e cerco di tenermi aggiornato su artisti, gruppi, idee, ricerche, modi di espressione. Detto questo, sono sempre condizionato e legato sia agli/dagli strumenti che suono sia a una certa “magia” che sento in queste registrazioni. Forse perché c’è anche tutto un discorso di memoria quasi a livello cellulare, dato che queste incisioni rappresentano delle pietre miliari nella mia traiettoria musicale. Detto questo, liste da cinque potrei farne tutto il giorno.
Tim Berne, un musicista originalissimo che ho ascoltato molto e con cui mi piacerebbe scambiare idee e suoni. Vedere i suoi sketches, le sue linee, il modo come “monta l’impalcatura” sonora dei suoi progetti.
La Svezia nel mio immaginario musicale non jazz è Abba e ovviamente Bergman. Tra gli ultimi film arrivati da lì mi è piaciuto particolarmente “Border” del regista iraniano-svedese Ali Abbasi. C’è altro che conosci e consigli?
Guarda, detta senza preamboli, mi sento abbastanza staccato da quella che è la realtà locale e nazionale, a parte chiaramente il cerchio musicale di cui ti ho già fatto dei nomi.
Il tuo Paese di adozione è ancora il posto molto civile che noi, che facciamo sogni bagnati (almeno) di socialdemocrazia, ci immaginiamo?
C’e un amico poeta, Daniel Boyacioglu, che secondo me scoperchia e mette in luce con il suo lavoro quelli che sono i limiti di una società che ancora non vuole fare completamente i conti con il fatto che “svedese” non vuol più dire biondo occhi azzurri, oramai da tanto tanto tempo (semplifico, ovviamente). Il partito che si chiama Sverigedemokraterna, con radici naziste, sta cercando di spolverarsi i rever della giacca con miseri risultati, aveva nelle ultime statistiche pre-Corona il 22% dei voti. Cioè un quarto della popolazione non è convinta (a vari livelli di non-accettazione) che gente come me (uno dei tanti esempi, dato che a tutti gli effetti sono un immigrato) possa contribuire positivamente alla società. Enough said!
La Svezia di oggi è chiaramente molto più un melting pot già solamente rispetto a quando sono arrivato qui io. Questo è del resto evidente e normale dappertutto, e crea necessità di adattamento e apertura mentale da parte di tutti, e purtroppo anche tensioni. Secondo me l’integrazione non ha ancora dato svolta, diciamo, e questo crea in molti una insoddisfazione che alla fine diventa palpante in commenti e atteggiamenti di base. C’è senz’altro da lavorare anche qui, ma vedo che di generazione in generazione i preconcetti e l’ottusità sembrano di volta in volta diluirsi. Si continua il lavoro anche lì!
Tu cosa ascolti, oltre al jazz?
Ascolto molta musica (colta? classica?) contemporanea. Non sono un esperto neanche lì, ma per esempio nomi come Berio, Donatoni; c’è un cd sulla Hat Hut con Eberhard Blum ai flauti che ho praticamente consumato. Ancora una volta, sono abbastanza condizionato dagli strumenti che suono, e questa voglia di progredire e imparare nuove sonorità sia armonicamente che tecnicamente.
Cosa ti interessa nella musica in generale e nel jazz in particolare, cosa ti fa drizzare le orecchie? Il ritmo, la melodia, il furore della creazione istantanea?
Per iniziare a rispondere in modo forse “mistico”, quello che mi fa drizzare le orecchie prima di tutto è la “magia” dei suoni che escono. Per citare l’altosassofonista e compositore Tim Berne, “I remember my first saxophone lesson with Julius Hemphill when the first thing he talked about was magic before I even knew what a scale was”. E a quel punto termina la possibilità di definire a parole quello che provo. Ma dato che far musica è il mio “lavoro”, posso provare a continuare parlando di direzione, suono/suoni che hanno un obiettivo da raggiungere. Un motivo d’essere nel momento quasi zen, ma che viene giustificato da quello che succede un secondo dopo. Lo swing nel senso di elasticità organica in tutta la “bolla” di suono che viene presentata, sia essa un passaggio incandescente in solo di Evan Parker, rubato con respirazione circolare, o un tema sparato dei Jazz Messengers frustati (simbolicamente!) dalla batteria di Art Blakey, oppure gli archi che iniziano la “Unanswered Question” di Charles Ives (non so dirti perché mi sono venuti in mente questi tre esempi). Poi senz’altro variazione (detta sinceramente, trovo che a proposito di grooves/temi reiterati, tante volte ci sia una sorta di autocompiacimento in certe composizioni di jazz, cioè: quante volte puoi in realtá suonare queste quattro battute? Invece, a proposito di magia, certi intervalli/vamps di due o tre note possono continuare indefinitamente, ed ogni volta si è solo contenti che il tutto continui!). Volontà di battere strade nuove, trovare la propria identità attraverso uno stile di musica che sì apre la porta a tutti ma anche, secondo me, esige disciplina, sincerità e autoriflessione.
Nei tuoi dischi si sente tanto swing, tanto groove, ma anche una voglia di battere sentieri non frequentati o non troppo frequentati, ecco. Io ci sento dentro la Fire Music di Archie Shepp e credo che diverse cose suonino con uno spirito affine a quello infuocato che animava le perle dei cataloghi ESP Disk oppure BYG/JazzActuel.
Wow, mi metti in compagnia dei giganti! Vinili di Shepp e dei gruppi connessi alla ESP e BYG ne ho, e alcuni li ho anche ascoltati dal vivo. L’Art Ensemble of Chicago edizione originale, Anthony Braxton, Andrew Cyrille in un mitico concerto con Hamiet Bluiett, Steve Lacy, Sun Ra; seduto sull’orlo della poltrona, senza quasi respirare.