ALASKAN, Despair, Erosion, Loss
Con un titolo e un artwork del genere si è pronti a tutto, ci si prepara a passare attraverso una coltre sludge nera come la pece e asfittica come le paludi, con le mangrovie che trasformano il panorama in una gabbia surreale. Di certo, qualche indizio sparso sapientemente dai tre canadesi conferma questa sensazione di disagio e predispone l’ascoltatore a entrare nella stanza con la stessa verve di un animale al macello, che poi non tale non sarà, per lo meno non ai livelli che ci si sarebbe aspettati con simili premesse. Il nucleo della questione è che gli Alaskan hanno saputo costruire un album estremo e cupo, ma lo hanno fatto con una cura negli incastri e una personalità che permea ogni pezzo di una passione pulsante, quasi tangibile, e di un pathos che rapisce l’ascoltatore e gli fa quasi dimenticare la potenza di fuoco che la band sa scatenare. Despair, Erosion, Loss è frutto di un’attenta ricerca del punto di equilibrio tra (molte) ombre e (poche) luci, disperazione e voglia di riscattarsi, furia iconoclasta e preparazione dei dettagli, in modo da mostrare tracce di bellezza – tanto fugaci quanto intense – in mezzo alla disperazione. Si va, innegabilmente, a parare dalle parti della scena “post-tutto”, quella che ormai ha raggiunto lo stato dell’arte nel centrifugare ogni spunto interessante rilevato dai radar estremi, ma lo si fa con il proprio tocco, con la propria ricetta dal sapore speziato al punto giusto e, per questo, del tutto godibile e riconoscibile. Che poi scorrendo i titoli e ascoltando la parte centrale di “Guiltless” si crei un corto circuito emotivo e si finisca per non sapere se commuoversi o guardarsi le spalle, questo è solo un altro punto a favore degli Alaskan, che hanno capito alla perfezione come colpire la fantasia dell’ascoltatore e riuscire a non passare inosservati. A breve saranno in Italia e vederli dal vivo potrebbe essere la cartina di tornasole di quanto detto finora o, almeno, lo speriamo.