ALASKAN

Alaskan

Abbiamo deciso di intervistare gli Alaskan dopo essere rimasti favorevolmente colpiti dal loro nuovo disco e speravamo di potervi offrire il resoconto della chiacchierata prima delle sue date in Italia. Purtroppo la band era già in fermento per la trasferta intercontinentale, per cui non siamo riusciti a pubblicare il resoconto della nostra chiacchierata in tempo, ma questo nulla toglie all’interesse per una formazione che riesce a staccarsi dai cliché per le tematiche toccate e per un approccio personale al songwriting. Dopo tanta musica (due dischi recensiti e un live), ci siamo concentrati su storie, scene, testi e artwork. Risposte “collettive” del trio durante il tour.

Vi va di presentare gli Alaskan ai nostri lettori? Quando vi siete incontrati e da dove venivate come musicisti e ascoltatori? Eravate già coinvolti in altre band?

Ottawa ha una comunità musicale molto unita, quindi era inevitabile per noi incontrarci prima o poi attraverso qualche amico comune. Siamo tutti cresciuti nella scena locale e vi abbiamo contribuito con altri progetti minori prima degli Alaskan, che sono cresciuti e maturati come del resto è accaduto a noi come persone. Continuiamo ancora a partecipare alla scena locale con altri progetti, ma nessuno serio come questo.

Parlaci della vostra comunità musicale, c’è qualche nome che vi andrebbe di segnalare?

Come abbiamo già detto, la scena è piccola, ma Ottawa ha sempre avuto la sua buona dose di band valide, come Union Of Uranus, Buried Inside, Experiment In Terror, Shotmaker, solo a citarne alcune. Ottawa ha anche un suo sound ben definito e ha sempre prodotto persone incredibili che hanno contribuito a renderla vitale e ricca. Emmanuel (Buried Inside, Crusades, Pregnancy Scares) ha iniziato quest’esplosione, che ha contribuito ad inserire la città nella mappa come un punto focale. Ogni estate c’è l’Ottawa Explosion Weekend, che è un festival incredibile di suoni differenti e questo è solo un esempio del duro lavoro che si fa per mantenere la scena attiva. Alcune band che dovreste ascoltare sono: Kloven Hoofs, The Vanishing Act, Fuck The Facts, Swarm of Spheres, Biipiigwan, The Gallop, Heavy Bedroom… e la lista potrebbe continuare.

Sono curioso di conoscere la storia dietro al nome, se ce n’è una. C’è una specifica immagine che volevate suggerire?

Non c’è, in realtà, una vera storia dietro al nome. All’inizio volevamo solo cercare qualcosa che suonasse bene, di semplice. L’immaginario è cresciuto con la band fino a prendere una sua forma. Il modo migliore per affiancare l’immagine al nome è guardare l’artwork dello split con i Co-Pilot. Desolato e vuoto.

Molti potrebbero restare sorpresi dallo scoprire che siete un trio. Avete sia impatto che tecnica. Avete mai pensato di aggiungere una seconda chitarra?

C’è stato un momento in cui molti amici si sono offerti di entrare come seconda chitarra e ne abbiamo discusso per un po’, ma abbiamo ragionato sulla cosa e raggiunto la conclusione che, siccome noi tre abbiamo lavorato parecchio fianco a fianco sin dall’inizio, l’inserimento di una nuova potrebbe alterare il processo di scrittura. Ci sentiamo a nostro agio l’uno con l’altro e a lavorare insieme. È più semplice essere un trio e finora non abbiamo perso l’impatto di una vera e propria band, pur essendo solo in tre.

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Nel vostro nuovo album sono presenti degli archi suonati/arrangiati da Mark Molnar. Che ruolo hanno? Il loro suono sembra spesso ispirarsi a un thriller.

Credo che l’aggiunta degli archi derivi dalla voglia di spingersi sempre oltre ad ogni nuova uscita. Cerchiamo di superarci nella musica ma anche nella produzione. Abbiamo contattato Mark perché abbiamo ascoltato il suo lavoro su altri dischi e ci ha molto colpito. Gli abbiamo dato delle indicazioni minime, quindi, ciò che è finito sull’album è tutto merito suo, gli abbiamo offerto controllo assoluto sul suo contributo. Lui è un altro esempio di musicista di Ottawa al contempo laborioso e sorprendente.

Avete postato sul vostro profilo Facebook tre storie tragiche. Ogni storia è collegata ad una traccia del disco, così da dare un nuovo senso al tutto. Cosa significa per voi la parola famiglia?

Prima di partire per il tour abbiamo postato la storia che c’è dietro ciascuna delle sei tracce dell’album, così da dare più senso e portare luce sugli argomenti che volevamo trattare con questo lavoro. Il concept era più una critica all’attuale visione della famiglia e a come si diano per scontate le nostre relazioni e anche le nostre idee sulle malattie mentali. Credo che anche tra noi tre ci siano idee molto differenti sul concetto di famiglia, ma abbiamo in comune la convinzione della sua importanza.

Anche l’artwork è collegato al concept? Vi va di parlarci dell’immagine e di chi si è occupato della parte visiva del disco?

Dopo che ci siamo accordati sul concept, abbiamo incontrato un fotografo di nome Niki e ci è sembrato che catturasse perfettamente con le sue foto ciò che volevamo rappresentare in musica, quindi lo abbiamo contattato per avere il permesso di usare le sue foto.

Toccherete presto anche l’Italia con il vostro tour (cosa ormai avvenuta quando leggerete queste righe, ndr). È la vostra prima volta in Europa? Come descrivereste un vostro live set? Preferite rimanere fedeli alle versioni in studio, suonare più diretti o cambiare comunque approccio?

Questa è la nostra seconda volta in Europa. Siamo già venuti nel 2011 per promuovere Adversity; Woe. Tendiamo a restare più fedeli possibile alle versioni in studio, ma ci sono delle eccezioni (come gli archi del nuovo disco) che non sono presenti nei live. Abbiamo dei sample che inseriamo tra i brani e che non abbiamo più registrato in studio dai tempi di The Weak And The Wounded. C’è anche un certo livello di energia che cerchiamo di raggiungere dal vivo. Insomma, proviamo ad offrire con i nostri concerti ciò che ci piacerebbe ricevere dalle band che amiamo. Ci sarebbe molto da dire su quelle band che riescono a mantenersi dal vivo allo stesso livello degli album e questo è ciò che cerchiamo di raggiungere per quanto nelle nostre possibilità.