ALAN SPARHAWK, White Roses, My God

Mim amava le rose, e a volte penso che lei sia Dio. Mim è Mimi Parker, scomparsa alla fine del 2022. Colui che parla è Alan Sparhawk, suo compagno di vita e nei Low, un vero e proprio culto ormai esauritosi poiché fondato, da sempre, proprio sulla purissima, potente alchimia artistica fra i due. Dopo essersi intrattenuto con il prescindibile progetto Damien assieme al figlio Cyrus (tra gli altri coinvolti), Sparhawk è stato incoraggiato da Kurt Wagner dei Lambchop a intraprendere alla svelta un percorso da solista, senza contare quello che era stato in realtà l’esordio a suo nome del 2006, Solo Guitar.

Questo, di progetto, dovrebbe allora chiamarsi Demon, perché fa quasi paura. Undici brani che da una parte proseguono la parabola elettronica maggiormente distorta e sperimentale degli ultimi Low, quegli degli anni 10/20 del nuovo millennio, e dall’altra rendono completamente aliena e volutamente irriconoscibile la voce del padrone di casa. Ciò avviene con un uso smodato degli effetti vocali, al quale Sparhawk ricorre con fare quasi tossico, non per perfezionare verso un ideale bensì per sformare verso estremi sfidanti, a un passo dall’autosabotaggio. Se nel sodalizio d’origine l’uomo era un tutt’uno con Parker, in White Roses, My God si materializza un suo doppelgänger da un’altra dimensione.

Prendete, ad ogni modo, un pezzo come “Feel Something”: si capisce facilmente ogni cosa, basta tendere l’orecchio. Can you feel something here? è la domanda che, via via, di minimale ripetizione in ripetizione, si trasforma nell’affermazione I want to feel something here, per poi articolarsi con più precisione in Can you help me feel something here?: un esorcismo digitale che, per paradosso, non risulta mai freddo, anzi gronda giù budella come in un bel massacro con il vocoder.

È inevitabile pensare a opere altrettanto catartiche in termini di elaborazione del lutto, da Carrie & Lowell e Javelin di Sufjan Stevens a Ghosteen di Nick Cave & The Bad Seeds, ma in virtù delle scelte stilistiche si pensa anche a nomi come Bon Iver, il Mount Eerie di Pre-Human Ideas, Jerusalem In My Heart, James Blake, Frank Ocean, Childish Gambino. Le improvvisazioni chitarristiche su orditi di synth e drum macchine potrebbero trasportare su binari Kraftwerk posseduti da quei satiri dei Liars, nonostante siano stati tirati in ballo altri modelli di riferimento, cioè un altro doppelgänger, l’alias Camille di Prince, e il Neil Young di Trans.

Registrato a casa, a Duluth, nel Minnesota, White Roses, My God è stato realizzato da Sparhawk in un’autarchia che suonava a suo dire come una disperata naïveté, con l’aiuto in fase produttiva di Nat Harvie, che si è occupato anche del mix, mentre il master è stato affidato a Heba Kadry. Qui comunque, come si diceva, la faccenda è abbastanza disturbante. La ricerca spirituale di Sparhawk si spinge negli anfratti più bui e reconditi della mente in linea vivente-mortale. I singoli “Get Still” e “Can U Hear” colpiscono subito, “Brother” deraglia in direzione blues-funk e se “I Made This Beat” è luciferina ossessione in primis ritmica e “Somebody Else’s Room” è veramente creepy, la concisa “Heaven” cerca di pareggiare i conti ma, a dispetto di toni in apparenza più concilianti e cori celestiali, Heaven is a lonely place if you’re alone. Un album da amare o odiare, di quelli che dividono, dunque da amare ancora di più. (Elena Raugei)


Spesso un disco esonda fino a diventare molto altro in pochissimo tempo.

Un esorcismo. Uno sfogo. Un divertissement. Una necessità. Una terapia.

Alan Sparhawk torna con un disco che è insieme la fine dei Low, la sua ripresa dopo la morte della sua compagna Mimi Parker e il primo passo in una direzione esterna al suo sentire.

All’ascolto del singolo “Can U Hear” la percezione era stata quella che il dolore di Alan potesse trasformarsi in lacerante, sorprendente bellezza. Purtroppo così non è e White Roses, My God presto si tramuta in un mancato dialogo, per un’incomunicabilità non sibillina ma semplicemente brutta, con brani indifendibili come ad esempio “Heaven”, dove sia voce che arrangiamento stridono ai limiti del ridicolo. Spesso si sente un’intensità che però viene meno per delle scelte sonore a noi ancora incomprensibili. “Brother” potrebbe avere dalla sua una sorta di intensità trascendentale ma appare anch’esso episodio isolato.

I riferimenti di Alan sembrano essere l’alter ego Camille di Prince e Trans di Neil Young, e di certo questo è un disco che ha bisogno di tempi di assimilazione più lunghi rispetto al precedente, ma sembra francamente esagerato dipingerlo come un lavoro brillante e provocatorio. Si parla anche di testi emozionanti che però, non essendoci pervenuti rimangono, per lo più nascosti dietro alla loro stessa natura stilistica e quando riescono ad oltreppasarla trasmettono lo smarrimento del loro autore in questo frangente. “Station” trova un equilibrio fra animo percussivo e voci circolari, dimstrando che quando si trova una centratura questa via può trovare una via, riuscendo a evocare l’ombra del ballardiano Brutha Fez, trapassato rapper sufi in Cosmopolis, ma molto semplicemente sono pochi i brani di questo livello.

Ho sempre avuto bisogno di metabolizzare con tempi piuttosto lunghi i cambiamenti stilistici di Alan Sparhawk e dei Low lungo la loro carriera, apprezzandone le sterzate dopo qualche tempo e se arrivati alla fine alla fine di undici pezzi se ne salvano tre, quattro al massimo, di norma è dimostrativo di un album non riuscito. L’augurio è che possa essere utile, foriero a un’elaborazione successiva. (Vasco Viviani)