Al Torino Jazz Festival con Sarathy Korwar, Stefano Zenni e Giorgio Rimondi
Come scrive Geoff Dyer in “Natura morta con custodia di sax”, quel “rapporto sempre sfuggente tra composizione e improvvisazione permette al jazz di autogenerarsi”, perché ogni interpretazione successiva di un brano jazz, che sia famoso o meno, va ad aggiungersi a quel “corso articolato di critica in atto” affermato da George Steiner nel libro “vere presenze”.
Proprio questo percorso continuo di trasformazione è alla base del concetto cardine che muove il Torino Jazz Festival, anche in questa undicesima edizione conclusasi da poco, in cui hanno convissuto anime e realtà diverse, tutte ospitate nella città di Torino che da sempre è centro culturale vivace e di lunga tradizione jazzistica. Come il mondo si trasforma, così il Jazz e lo stesso TJF, che nell’edizione del 2023 ha unito grandi nomi a protagonisti di una nuova corrente, semmai ce ne fosse solo una, per cercare di creare una mappa in cui orientarsi alla scoperta di un genere musicale meticcio, difficilmente incasellabile da sempre.
Durante i vari appuntamenti lungo tutta la settimana, due sono state le occasioni per toccare un argomento che sembra essere ormai alla portata di tutti anche in Italia, quantomeno in termini di una superficiale conoscenza indiretta dovuta ad una maggiore diffusione su canali di comunicazioni diversi e differenti, l’afrofuturismo. La prima con Stefano Zenni, direttore artistico del Torino Jazz Festival, e Giorgio Rimondi, autore del libro “L’invasione degli afronauti. Astronavi narrative di inizio millennio. Afrofuturismo: dalla musica jazz alla fantascienza nera, e oltre”, in occasione della presentazione dello stesso al Circolo dei Lettori. La seconda con Sarathy Korwar, dopo la sua esibizione al Bunker di Torino, tra i protagonisti della nuova scena jazz inglese e promotore dell’indofuturismo.
Cosa significa parlare di afrofuturismo, oggi? E soprattutto se è moda questo suo rinnovato interesse, quantomeno in Italia, oppure effettivamente c’è un cambio di passo.
Giorgio Rimondi: Credo di non essere troppo originale nel dire che un aspetto autocelebrativo e collegato alla moda c’è, in un certo senso anche buono, positivo, lo dimostra la celebrazione ufficiale fatta al Lincoln Center l’anno scorso. Un fenomeno che in realtà ha quasi trent’anni, non stiamo dicendo niente di nuovo. È nuovo per l’Italia perché comunque è un ambito di studio e ricerca, e continuo a pensare – magari mi sbaglio e qui c’è Stefano che può correggermi – che il jazz ha fatto e continui a fare fatica a diventare da noi un oggetto culturale di studio a tutto tondo, cosa che, per esempio, è da sempre in Francia per ragioni storiche, culturali… È un oggetto di studio parziale e interessante per i musicisti, gli studiosi, storici, storiografi, esteti. La sfida di un libro come L’invasione degli afronauti e gli altri che ho scritto è proprio questo e, vuoi perché non sono un musicologo, quello che mi interessa è prendere questi fenomeni che, quasi sempre o sempre, hanno al centro la e le musiche afroamericane e analizzarli da un punto di vista diverso, in modo che quella musica finisca per confrontarsi con l’altro da sé. E questo è il mio compito, dopodiché che ci sia un fondo di consumismo è vero, fra l’altro alcuni di loro, afrofuturisti della prima ora, dicevano già più di vent’anni fa di fare attenzione a che non diventasse la solita moda perché sarebbe potuto essere controproducente. Quindi c’è questo elemento e tuttavia c’è anche, come spesso accade, quello della ricerca seria che ci aiuta ad illuminare un percorso e a dare ragione di certi fenomeni che altrimenti rimarrebbero irrelati, e poi c’è chi ne approfitta e fa di questa cosa qui una moda.
Stefano Zenni: “Io posso aggiungere che ci sono due aspetti: uno come hai accennato tu e ha detto Giorgio, bisogna vedere col tempo che non sia, forse più che una moda, una sorta di strategia di marketing da parte di molti musicisti, penso più che alla scena afroamericana, dello statunitense Kamasi Washington, e poi quella afroinglese al cui vertice c’è Shabaka Ucthings. Il problema è capire perché paga, perché questo tipo di mito funziona anche sul pubblico. Innanzitutto, penso possa funzionare perché comunque anche al pubblico bianco offre una specie di schermo su cui proiettare, se vuoi, una specie di senso di colpa post coloniale, o una forma di identificazione, ricerca di altra identità. In fondo per i bianchi il mondo afroamericano ha sempre rappresentato questo, da quando i bianchi si pittavano la faccia di nero: non sono come te ma mi piace la tua musica, in più ti tratto male e cerco comunque di identificarmi con te per poter ballare e danzare. L’altro riguarda il recupero dell’afrofuturismo da parte di musicisti contemporanei che funziona come uno sguardo verso il passato ed è una cosa comunque attuale, ma allo stesso tempo è molto diverso dell’afrofuturismo di Sun Ra, ad esempio, perché è più meticcio stilisticamente. Chiaramente fa parte della tendenza contemporanea, però funziona in modo ancora più potente perché tu a quel punto veramente ci senti il reggae, il rap, e secondo me non è un caso che accada più a Londra che negli Stati Uniti, perché il dialogo delle diverse comunità afro-inglesi è più stretto rispetto ad un mondo più segmentato come quello statunitense.
Giorgio Rimondi: C’è questo lungo articolo di Erik Davis che si chiama Radici e cavi: è un testo fatto da un bianco, credo di origine ebraica, uomo intelligente e acuto che diceva già allora, prima che nascesse la voga dell’afrofuturismo, delle cose del genere. Riconosceva nella comunità afro-inglese, afro-londinese in particolare, una specie di punta avanzata delle mode, o comunque degli orientamenti musicali della metà degli anni Novanta. Coglieva già allora perché aveva, oltre che l’orecchio sviluppato, anche secondo me un’intelligenza molto particolare.
Stefano Zenni: Mi viene in mente anche il sociologo Stuart Hall, in un certo senso ha questa prospettiva critica meticcia. C’è una sua frase in cui dice: «nello studiare la musica popolare afroamericana bisogna stare attenti perché è un campo profondamente mitico».
Giorgio Rimondi: Perché la cultura afroamericana è colma di mitografi. Tutti gli scrittori afroamericani, prova a pensare a Ismael Reed che si inventa Mumbo Jumbo, tutta quella storia. A me interessa in particolare Ismael Reed perché l’ho studiato e conosciuto ma lo dice chiaramente nelle sue follie da teorico di non sopportare il fatto che in qualche modo la tradizione bianca abbia scambiato la purezza del logos con la ricchezza del mythos, e lo dimostra nei suoi romanzi, cioè basta con questa filosofia “più o meno rubata ai greci” come dice Sun Ra, con questa storia della filosofia che valorizza soltanto la razionalità. Dice: «noi veniamo da un’altra tradizione, non abbiamo mai lasciato indietro il mito perché nutre il nostro modo di essere e di pensare».
Se da una parte c’è questa comunicazione massiva dell’afrofuturismo, quindi un’apertura maggiore ad altre culture apparentemente lontane da noi, dall’altra invece c’è una recrudescenza del concetto dell’uomo nero come nemico, invasore. È semplicemente una coincidenza o è collegato?
Giorgio Rimondi: “Bisognerebbe approfondire il tema dell’afropessimismo, ci sono questi studiosi straordinari che dicono delle cose che se le prendi sul serio c’è da riflettere davvero. Dicono delle cose violentissime, quella che mi ha colpito di più è “che il nero è un bisogno del bianco”, riprendendo le tesi di Frantz Fanon e aggiornandole. Ma è comunque interessante da un punto di vista psicologico e psicanalitico, perché hanno trovato degli agganci in questa che è una postura del soggetto in sé stesso, soggetto bianco e soggetto nero, che ha che fare con tutto l’aspetto sociale e razziale e, loro dicono, in qualche modo che il bianco per sapere qualcosa di sé ha bisogno di crearsi un nemico e più nemico del nero non c’è nessuno.
Stefano Zenni: Darò una risposta diversa e complementare a quella di Giorgio. Credo che il problema del nero come nemico sia diverso negli Stati Uniti e in Europa, perché in U.S.A. è una recrudescenza o irrigidimento della storia della discriminazione razziale e diminuzione demografica del potere WASP. In Europa ha a che fare con il fenomeno migratorio e l’incontro/scontro in alcune zone, meno a Londra anche se le politiche restrittive dei nuovi governi inglesi lo dimostrano, e alla fine il colore della pelle conta fino ad un certo punto. Il problema è da dove vieni, è diverso il tipo di scontro.
Giorgio Rimondi: È anche vero che adesso si parla di “Black Mediterranean”, non c’è più solo un Black Atlantic ormai da almeno da dieci anni.
Parlando di Torino Jazz Festival, dall’afrofuturismo passiamo all’indofuturismo visto anche il concerto di Sarathy Korwar, quindi c’è un passaggio ulteriore: sembra quasi che l’afrofuturismo in un altro senso sia passato di moda perché qualcun altro mette in luce altri contesti, altre storie.
Stefano Zenni: No, non passa di moda. Secondo me è quella cosa che è successa anche con il nu jazz, tra l’altro aspettiamo che arrivino le comunità asiatiche tra poco, cioè non solo quella indiana, il fatto è che la comunità afroamericana ha proposto dei modelli per le culture subalterne per potersi affermare. In fondo il jazz è anche questo, un linguaggio che qualsiasi cultura subalterna può far proprio e attraverso il quale affermarsi. Poi c’è chi lo fa oggi in modo un po’ più furbastro come Shabaka o Kamasi Washington, anzi lui lo considero già un capitolo chiuso, un bluff totale, ma penso per esempio, per fare un passo indietro, a come gli asiatici negli Stati Uniti tra gli Ottanta e i Novanta abbiano preso le parole d’ordine dei musicisti come Archie Shepp, Cecil Taylor per farle proprie nelle loro battaglie identitarie, come Fred Ho ed altri. Quindi mi sembra che l’indofuturismo diventi un modello perché altre culture subalterne o post coloniali possano dialogare.
Giorgio Rimondi: Quindi funziona come sdoganamento. Poi – e questa la dico perché c’è Stefano – io mi sono fatto un’idea e magari sbaglio, ma c’è stata una parabola del jazz che in qualche modo ha fecondato tutte le musiche del Novecento. La sua funzione adesso credo sia ancora più larga, più che non la musica proprio la cultura afroamericana che sta diventando matrice di tante cose.
Chiudendo quindi con il concetto di cultura in senso ampio: esempi di afrofuturismo nella letteratura di oggi?
Giorgio Rimondi: Sono soprattutto autrici. Ne cito una: Nnedi Okorafor, di origine nigeriana ma cresciuta negli Stati Uniti, che ha grande successo e tradotta anche per l’Italia e non è soltanto una narratrice ma una teorica, perché si è inventata al posto dell’afrofuturism un african-futurism, un afrofuturismo specificamente africano in cui l’alterità non è più il bianco ma c’è tutto un discorso fra africani che hanno un’altra prospettiva. Non hanno più lo sguardo bianco che li fotografa ma è un ragionamento più dall’interno. Ed è una senz’altro da tenere d’occhio.
Come stai, Sarathy? Com’è andato il concerto al Torino Jazz Festival?
Sarathy Korwar: Sto veramente bene, sono solo a Napoli per una breve vacanza dopo il concerto a Torino e Roma, mi sto divertendo molto, mi sento pieno di energia grazie alla musica e ai concerti, a tutte le persone, il cibo e la cultura che mi hanno accompagnato negli ultimi tre giorni, è stato davvero entusiasmante e appagante. Il concerto a Torino è stato incredibile, il Bunker è un posto eccezionale, mi sento così privilegiato nel vivere queste esperienze grazie il mio lavoro di musicista. Penso che questo sia uno dei grandi vantaggi dell’essere un musicista. Come posso raccogliere ancora più esperienze come questa? Beh, potrei passare più tempo nel farlo.
Parlando di Kalak: è un album altamente politico. Qual è stata la prima ispirazione?
Dopo aver realizzato il mio ultimo album, uscito nel 2019, anche quello molto politico e riguardante l’essere una persona del Sud del mondo in Gran Bretagna, e un po’ anche riguardante la mia emigrazione e la colonizzazione in generale, mi sono chiesto di che cosa parlare nel disco successivo. Ero affascinato dall’idea del tempo circolare, di futurismo e di come affrontare questa idea di futurismo dal punto di vista indiano. Questa è stata la mia prima ispirazione.
Il concetto di tempo circolare è interessante, non è un elemento comune nella cultura europea. Significa che alla fine tutto accadrà di nuovo? E poi, tutto l’album suona molto circolare.
Credo che il concetto di tempo circolare sia così profondo e difficile da comprendere per qualsiasi essere umano che non ci sia una risposta facile a questa domanda: le cose si ripeteranno? In un certo senso sì, sappiamo che la storia si ripete, lo vediamo ogni giorno, ma allo stesso tempo forse niente sarà mai identico di nuovo. Riguardo questa idea di tempo circolare credo ci sia tanto che le persone non comprendono, ma è importante cercare di pensare al tempo come circolare perché apre molte possibilità e prospettive per immaginare diversamente, ed è questo il tentativo fatto attraverso l’album.
Oggi, anche in Italia, l’afrofuturismo sta diventando una parola popolare nella musica, a volte più per hype che per un reale interesse, ma le persone stanno cominciando ad esserne curiose. Ed è pieno di significati e storie. Cosa ne pensi?
Immagino perché l’afrofuturismo ha preso vita propria e per una buona ragione. Molte persone, in particolare quelle della diaspora africana e le persone africane, hanno avuto bisogno di creare le loro storie, le loro mitologie, le loro religioni, perché c’è stato un vuoto nel modo in cui sono state in grado di immaginare loro stesse a causa della schiavitù, del razzismo e penso che debba esserci spazio per tutti per immaginare i loro futuri, sulle loro terre.
E l’indofuturismo?
L’indofuturismo trae ispirazione da molti tipi diversi di futurismo, e per me l’indofuturismo quel diverso futuro pensato dagli indiani rispetto a come ci viene venduto ora in India, che è molto di destra e pro indu. Come possiamo pensare all’indofuturismo in modo diverso da quello? Come possiamo pensare a una prospettiva più secolare, più anti-casta, anti-classe? Tutte queste domande vengono fuori quando penso all’indofuturismo.
La canzone “Utopia Is A Colonial Project” è forse il punto focale dell’album Kalak. Puoi dirci cosa significa in relazione a Tommaso Moro?
Nel libro che Tommaso Moro scrisse, chiamato “Utopia”, mi pare fosse nel 1516, si usa per la prima volta la parola “utopia”. La storia e la creazione dell’utopia in quel libro mi sembra molto simile al modello mentale del colonialismo. Andare in un luogo, trasferire il tuo popolo, senza rispettare la cultura presente, sfruttarne le risorse, e poi cambiando il nome del luogo perché il rinominare terre o città è anche una negazione della sua storia, giusto? Stai arrivando come se fosse un posto nuovo, ma niente è mai nuovo. Quindi voglio parlare dell’idea di utopia che per alcune persone e in alcuni contesti può essere come un progetto coloniale.
L’ultimo album si chiama Kal, che significa ieri e domani, ed è collegato a Kalak, il precedente disco che ha questo titolo palindromo. È curioso perché per l’album precedente hai usato una parola composta da te stesso usando il termine Kal come radice, mentre in questo nuovo hai usato la radice, attraversando quindi passato e futuro in due modi diversi.
Questa è un’ottima osservazione, e hai ragione. Si tratta di attraversare il passato e il futuro perché l’ultimo album Kal è in realtà la jam originale, la registrazione originale che poi si è trasformata in Kalak, quindi in un certo senso Kal è stato registrato prima di Kalak ma è stato pubblicato dopo Kalak. Quindi sì, gioco con l’idea di cosa è venuto prima, l’uovo o la gallina, Kal o Kalak? (ride, ndr).
Cosa puoi dirci di Kal, l’ultimo album?
Come ho detto, Kal (Real World) è una raccolta di registrazioni o jam dei giorni in cui siamo andati a registrare Kalak. È grezzo, non editato e ci sono alcuni errori, ma l’idea era quella di catturare qualcosa dal vivo e questo è ciò che Kal (Real World) fa secondo me. È quasi come uno sguardo dietro le quinte su come è stato creato Kalak.