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AL DOUM & THE FARYDS, Positive Force

Positive Force

Continua ad avanzare senza sosta l’ondata di progetti ed ensemble più o meno aperti ed estemporanei nati e (non sempre) cresciuti in Italia, che durante le ultime due stagioni o poco meno ha contribuito al ritorno in voga di un sound (per la verità mai del tutto sparito) che, partendo da radici nel kraut altezza Can/Neu!/Ash Ra Temple e nella psichedelia anglofona dei medi ’60/primi ’70, si risolve attraverso declinazioni varie ed eventuali che passano dallo space rock dilatato e sperimentale (In Zaire) al primitivismo percussivo e rituale di taglio cinematografico (Cannibal Movie, Mamuthones), per arrivare alle lunghe tirate free che frullano insieme Sun Ra ed elementi etnici tirati fuori da un Medio Oriente stilizzato e mai troppo vicino (Squadra Omega, Orfanado, La Piramide di Sangue).

Ed è proprio su queste ultime coordinate che si muove il sestetto milanese Al Doum & The Faryds, guidato da Davide ‘Dome’ Domenichini. Positive Force, seconda fatica discografica dopo l’omonimo lp uscito circa un anno addietro, si preannuncia già un must assoluto per tutti gli estimatori del genere. Complice anche la cura notevole per confezione (250 copie in vinile nero, 50 in vinile rosso) e artwork. Ed è giusto la copertina che ci indica in partenza le coordinate, pur sempre generiche, di ciò che ci aspetta una volta appoggiata la puntina: un tucano appollaiato sul ramo di un albero viene illuminato dal raggio luminoso sparato da un disco volante in stile Ed Wood che sovrasta i cieli della fitta vegetazione. Si parte quindi con “Sinai”, una lunga cavalcata guidata da darabouka e percussioni inferocite che avanzano senza posa a creare un tappeto ritmico, completato dal magistrale lavoro di basso del bandleader, sul quale si lanciano in picchiata gli svolazzi acidissimi di sax e chitarra. Il titolo biblico non sembra essere l’unica somiglianza con un altro ben noto combo esoterico italiano. A seguire “Heart”, un bel numero di psichedelia liquida e sfatta al punto giusto, dove fa la sua comparsa una voce salmodiante che ci conduce fino alla chiusura del brano: qui alcuni segnali audio poco rassicuranti ci indicano che forse non siamo soli. Dopo il breve passaggio a base di riverberi di chitarra e sax in lontananza di “Rahjan Creek”, si riparte a scorrazzare fra dune e sentieri scoscesi con “Ship Of Joy”, dove chitarra e sax si alternano sostenuti da una swingante base percussiva e un coro di Tuareg a battere il tempo della marcia. Con “Lava” entriamo invece in territori free-jazz, dove ad accentuarsi è la componente psych e cosmica che inevitabilmente ci conduce alla corte del maestro Sun Ra, ma citerei anche altri grandi nomi di riferimento come Pharoah Sanders o Alice Coltrane. Stesso mood che ritroviamo peraltro nella traccia a seguire, la conclusiva “Thirst”: una distesa di suoni diradati, dall’effetto psicotropo, che ci conducono dritti all’interno di un incubo desertico fra miraggi di oasi e pozze d’acqua. Il finale del brano segna il risveglio. Siamo ancora vivi. Il viaggio può continuare.