AIDAN BAKER, Pithovirii
Non è di moda parlare di uno iper-produttivo come Aidan Baker, di sicuro uno dei miei musicisti preferiti di questi anni, uno che ha trovato una sua “voce” a l’ha declinata in tutti i modi possibili. Passiamo le giornate a leggere del problema di autocontrollo creativo che la rivoluzione digitale ha involontariamente creato e dunque dire bene di lui suona contraddittorio, con tutto che un gruppo come i Nadja è molto amato. Nel caso di questo disco per Glacial Movements, è un po’ come se Baker andasse a caccia in una riserva: troppo facile. Eppure molto bello. L’ipotesi alla base del racconto è: cosa possono farci dei virus sopravvissuti all’interno dei ghiacciai per migliaia di anni? Il drone chitarristico sottile e inquietante di Baker (e dei Nadja nelle fasi calme) serpeggia per un’ora ed è quanto di più adatto per trasmettere la paura che qualcosa di infinitesimale e primordiale cominci a ucciderci tutti, una paura, in periodo post-pandemico, giustificabilissima. Ci immaginiamo senza problemi la consunzione progressiva dei ghiacciai e il liberarsi di minuscoli frammenti di chissà cosa, provenienti da epoche che credevamo concluse. Non stiamo niente, aiutati dalla pressione sui timpani delle basse frequenze (è ambient perfetta per un documentario, se vogliamo) a pensarci a grandi profondità sott’acqua mentre vediamo qualche stramaledetto pesce diventare l’ospite involontario di qualche malattia, mentre il mondo là sopra ancora non sa nulla, e rimaniamo col dubbio se mai tutto ciò potrà arrivare davvero in superficie. Ci sentiamo fortunati, perché almeno sappiamo da Ridley Scott che gli scienziati della spedizione “Prometheus” sono tutti morti.