Ai Confini Tra Sardegna E Jazz, 1-10/9/2017
Sant’Anna Arresi (SU). Le foto sono di Emiliano Cocco e Andrea Murgia, che ringraziamo moltissimo.
Da 32 anni in un piccolo centro (perfetto per quel vecchio pezzo dei Massimo Volume: “Una strada attraversa il paese. Il paese è quella strada”) del Sulcis Iglesiente, nel sudovest della Sardegna, tra stagni, dune, mare e fenicotteri rosa, alla periferia dell’Impero, come ama dire il direttore artistico Basilio Sulis, accade un vero e proprio miracolo: un festival jazz coraggioso sino a essere sfrontato, aperto a 360 gradi, libero, indipendente, di livello europeo. Quest’anno finalmente abbiamo potuto esserne parte, per otto dei suoi dieci giorni di durata, ed ecco dunque il nostro racconto.
L’edizione è dedicata a Max Roach e allora si insiste (We insist!) sul ritmo, il focus è sulla batteria. Si parte dunque inevitabilmente dall’Africa, nello specifico dalla Costa d’Avorio con Dobet Gnahoré: 6/8 che rotolano con grazia infinita, la stessa che ha la cantante nel porgere la splendida voce e che dimostra nella danza, per canzoni che sono classici istantanei che fanno muovere anche il capoccione del vostro cronista, ipnotizzato dal motore di tutta la faccenda: ritmo, ritmo, ritmo. Graceland, il capolavoro di Paul Simon, a suo tempo (erano esattamente 31 anni fa) aveva aperto le orecchie di molti sui tesori della musica africana; ora che da tempo ci giungono dal continente madre pepite di ogni foggia e colore (le serie Ethiopiques, i Konono n°1, Rokia Traoré, le cassette di Awesome Tapes From Africa… la lista potrebbe essere infinita) è proprio a quel lavoro epocale che la musica della ivoriana rimanda. Armonie ariose e un groove lieve ed inarrestabile, per un inizio semplicemente perfetto. Due curiosità: in un passaggio sembrava di ascoltare una versione roots di Glamour Boys dei Living Colour, anno domini 1989, e nel gruppo di Dobet alle percussioni figura il padre, Boni, vera superstar in patria. Alla fine del concerto si uniscono anche il batterista Hamid Drake, che sarà protagonista varie volte nel corso del festival, qui al tamburo a cornice, e Alì Keita al balafon.
Per la seconda serata si vira radicalmente, come accadrà sempre nel corso del programma: è il turno del duo Kenny Wollesen (batteria) e Sylvie Courvoisier (piano), e quindi ecco i vortici apparentemente sgrammaticati del free tayloriano, un portamento con un che di classico e rare aperture appena appena tematiche per poi ritornare ossessivamente, inesorabilmente a balbettare blues. Ascoltiamo scabri e dimessi monologhi da dislessici geniali (la Courvoisier dà sfoggio di tutto il suo talento e del suo grande estro) a cui fanno da contrappunto il batterismo libero ma un poco didascalico di Wollesen, abile nel destreggiarsi con sapienza tra varie fonti percussive e capace di suonare sempre su dinamiche basse. Il pianoforte, spesso preparato, indugia felicemente tra incubi novecenteschi e astrazioni europee, mentre Wollesen spazia tra campanacci, gong, campane tibetane e strumenti autocostruiti. Bel concerto, soprattutto grazie a una Courvoisier davvero brillante (il partner è parso più comprimario che dialogante, a volte), austero e immaginifico come un racconto di Borges.
Poi, mentre il maestrale si alza, è il turno del tornado Lean Left: Andy Moor e Terry Ex, storici membri dei leggendari olandesi The Ex, alle chitarre (maleducata e ficcante quella di Andy, sdentata, disastrata e volutamente antimusicale quella di Terry), Ken Vandermark a sax tenore e clarinetto (bravissimo nell’aprirsi varchi nel ginepraio ordito dagli altri tre ) e Paal Nilssen-Love alla batteria, inaspettatamente più misurato e rock, sempre e comunque una furia, un motore inesorabile e trascinante. L’attacco è da panico o da bomba atomica, un’atmosfera istantaneamente febbrile ribolle da corde, pelli e ance, per quella che pare una versione impazzita della foga rock degli MC5 o un heavy funk passato in centrifuga e strapazzato fino a restituire solo brandelli di groove macilento, come dei Sinistri molto, molto più cattivi (e con un che di balcanico nelle chitarre). Se Andy alla chitarra si dimostra più ragionevole e ordinato, pur in questo caos infernale, Terry invece non ha alcun riguardo per le buone maniere, suona come se non fosse capace di farlo in altra maniera (e forse è così), usando la bacchetta spesso e volentieri, dimenandosi come in preda a convulsioni, e sono proprio spasmi e scosse aritmiche quelle che fuoriescono dal vulcano dove stanno rintanati i quattro fabbri, che a forza di piallare forgiano una musica difficile da descrivere in modo compiuto (punkjazz spastico, carrarmato noisefunk?) ma davvero travolgente e a suo modo purificante. Una vera e propria sberla in faccia che lascia intontiti e contenti, dopo un’ora di free rock non euclideo ispido e strabordante energia.
Meno interessante e più interlocutoria la terza serata, che sconta la defezione last minute dell’ensemble del pianista cubano David Virelles. Di nuovo Africa in apertura con il duo balafon (la marimba africana) e batteria dell’ivoriano Aly Keita e del maestro di Chicago Hamid Drake. Fuori discussione l’enorme statura dei musicisti, ma si sente la mancanza di una terza voce (un basso o magari un sax baritono) a diversificare e ampliare le soluzioni, che invece restano un po’ limitate, tra giocose figure ritmiche sulle quali Drake sciorina tutto il suo repertorio e virtuosismi del griot africano che non entusiasmano. Così come il trio estemporaneo messo in piedi per supplire all’assenza di Virelles, formato da Pietro Tonolo al sassofono, Marc Abrams al contrabbasso e nuovamente Drake alla batteria. Prendendo spunto dalla Freedom Suite del 1958 di Sonny Rollins (nel cui trio militava pure Max Roach), il trio parte dal famoso tema di sessant’anni fa per improvvisare, ma la scintilla non si accende. Bello il bis finale dove torna sul palco Keyta mentre Tonolo passa al flauto traverso, ma si può parlare di un concerto mai decollato.
La quarta serata si apre con il prescindibile solo al piano di Joe Chambers, musicista dal curriculum straordinario e di prestigio e levatura indiscutibili, ma che non dice granché in questa veste e annoia rapidamente. Vanno molto meglio le cose con il Summit Quartet di Vandermark, Terry Ex, Mats Gustafsson e Hamid Drake. Improvvisazioni feroci e calibratissime, per un gruppo nato proprio su questo palco un anno fa. Se il primo pezzo finisce con un mood à la Steve Reich, nel secondo un sempre ispirato e puntuale Vandermark, rigoroso e folle al tempo stesso, in pieno controllo e capace di esondare senza mai suonare gratuito, sparge sale free sulle ferite, la marea monta, monta, fino all’entrata del baritono ruvido e selvatico, quasi animalesco di Gustafsson, capace di essere in un qualche modo soul pure in un contesto torrido come questo. In alcuni momenti il suono di certi Zu non pare così lontano (non è un caso se tutti i musicisti presenti sul palco hanno in modi e tempi diversi collaborato col trio romano). Poi basta che si sposti una virgola, una cadenza, e ci ritroviamo in un tempo swing. Nessuno ha mai usato che io sappia la definizione noisebop: io la trovo calzante per dire l’indicibile, ovvero la musica del Summit Quartet.
Efficacissime ossessioni ritmiche portate dai sassofoni, un basso obliquo e sporco, un Drake sugli scudi, leggero e potente al tempo stesso. A lui spetta l’inizio della terza improvvisazione, indagini fatte a mano sui tamburi, con Gustafsson a baritoneggiare sul bordo del silenzio mentre Vandermark al clarinetto si inventa percussionista. A un certo punto addirittura si finisce per viaggiare su un binario rock, con un midtempo sostenuto che prelude poi all’ultimo silenzio. Ma ne vogliamo ancora e li richiamiamo per un ultimo bis, non così pregnante, a dire il vero. Resta comunque in archivio un concerto dirompente.
Il giorno dopo Joe Chambers col suo M’Boom Repercussion Ensemble propone un set senz’altro più tradizionale ma di grandissima classe, tra il gospel ritmico ed orchestrale di Max Roach (“It’s time”), le sinuose figure latine portate dalla clave cubana di “Poem For Ravel” di Bobby Hutcherson e una sorprendente e ottima cover di “Come Back To Me” di Janet Jackson. Quattro percussionisti (segnaliamo alle congas Ray Mantilla), una batteria, un contrabbasso, un sassofono e un quartetto d’archi di giovani musiciti sardi ci deliziano con musiche che indugiano tra profumi di exotica, fragranze cubane (Benny Moré, il barbaro del ritmo, avrebbe potuto mettere la sua voce su uno di questi pezzi ) e felici deviazioni tra minimalismo e spiritual jazz. Centro pieno.
Dialoghi nella giungla quelli del duo Susie Ibarra – Tiziano Tononi ad aprire la sesta serata, con un live scarno e lussureggiante, ipnotico e calibrato. A chiudere poi il nonetto solo femminile (due percussioni, quattro fiati, una voce, un contrabbasso, un pianoforte) Shamania di Marilyn Mazur. Qualche prescindibile divagazione in stile Garbarek/ECM fiorisce poi in una sarabanda che rimanda al caos primordiale del Davis elettrico (la leader ha collaborato con the man with the horn), le orchestrazioni oblique di Carla Bley unite ad un certo gusto estetizzante che però non inficia la qualità di un concerto capace di coniugare fruibilità pop e sintesi di linguaggi diversi, con quel quid indicibile che hanno le donne e il loro modo di esprimersi.
Con la settima serata, per quanto mi riguarda, si raggiunge l’apice di una rassegna che ha comunque viaggiato su livelli altissimi. Tocca al solo del batterista, compositore e pianista Tyshawn Sorey, già visto anni fa in trio coi Fieldwork assieme a Steve Lehman e Vijay Iyer. Sparsi accordi di piano che rimandano alle Vexations di Satie o al disco bianco dei Labradford (lo stesso senso di minaccia densa, di gravità oltre la stratosfera), con un uso sapiente delle risonanze; come visioni di città dall’alto, un lentissimo volo di falco sulle architetture del ‘900, tra Stravinskij e le rarefazioni impervie di Braxton. Equilibrisimi sull’orlo del silenzio, rigore zen, lunghe, profondissime pause, suoni e dinamiche calibrati alla perfezione in una dimensione pienamente orchestrale, sinfonica diremmo. Sorey è da solo e suona solo le percussioni, ma sembra un’orchestra e quello che fa con bacchette e tamburi è semplicemente strabiliante. Un groove tutto mentale, intellettuale e ancestrale, disancorato dalla pulsazione e dalla danzabilità, abissale e vorticoso, minimale, imprevedibile. Semplicemente prodigioso. A seguire l’electro hip hop di Odd Time, con Kassa Overall (batterista e rapper giovane ma già sugli scudi, tra le altre cose presente nell’ultimo disco di Arto Lindsay) non dice più di tanto, tra memorie dei Beat Kids di Guillermo E. Brown e l’attitudine freak degli Animal Collective. Interessante quella che pare una improbabile cover di Attitude dei Bad Brains e il fatto che, per la prima volta nel corso della rassegna, siano presenti dei ragazzini locali tra il pubblico, attirati senz’altro dal beat accattivante della crew.
L’ottavo (e per me ultimo, ahimé) giorno si apre col trio jazz di Kassa Overall, come un Monk virato hip hop, tra swing sghembo urbano, pezzi à la Jobim e dedica finale a Geri Allen che riscuote il dovuto e sentito applauso. Poi nuovamente è il turno di Sorey, ma stavolta in formazione trio classica, con pianoforte e contrabbasso. Il groove viene portato di rado, ampie radure di suono, un pianoforte spigoloso e imprevedibile (l’ottimo Corey Smythe), musica che di nero forse ha poco, come quella di Roscoe Mitchell, e che come quella del gigante di Chicago a chi scrive è parsa notevolissima. Una selva di timbri spesso scabri e stridenti, un clima austero per qualcosa che non ha nulla di romantico, nulla di swing, nulla di melodico, che pare non avere un centro di gravità e invece orbita lontano e molto in alto, grazie alle visioni di un compositore già capace di grandi cose e destinato a restare.
Un festival bellissimo, necessario, un’utopia fatta realtà. Abbiamo fatto alcune interviste in questi giorni, ne riparleremo presto. Voi intanto, fatevi un favore, programmate già le vacanze per la prossima estate, l’anno prossimo venite a Sant’Arresi.