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AGRIMONIA, Awaken

Gli Agrimonia sono una fortunata band di Göteborg nata da musicisti già parte di At The Gates, Miasmal e Martyrdöd. Hanno esordito ormai una decina di anni fa, mixando post-metal, death metal e uno sludge/crust abbastanza levigato da una produzione non certo sporchissima.

I pezzi articolati degli Agrimonia, arricchiti e resi più dinamici sia da chitarre acustiche che da inserti di pianoforte, avevano colpito la Southern Lord nonostante il loro minutaggio. Il precedente Rites Of Separation (il primo sotto Greg Anderson) era infatti fortemente connotato dalla durata dei brani, che però rivelavano un’infinità di soluzioni tecniche, stuzzicando l’orecchio dell’ascoltatore: da spennate heavy a chitarre folk, fino alle distorsioni più fangose dello sludge, senza dimenticare un particolare uso del tremolo di impronta decisamente black metal.

Con il nuovo Awaken ci accorgiamo ancora di più che il gruppo sta disegnando una propria mappa della Svezia più estrema, specie quella degli ultimi anni. Fin dalla traccia di apertura, “A World Unseen”, le influenze death metal sono chiare come non mai: si parla del death di Göteborg, soprattutto quello melodico e più in mid-tempo degli In Flames e Dark Tranquillity, anche perché le urla di Christina ricordano sempre più spesso quelle di Michael Stanne. Ma sono le trame chitarristiche che stupiscono per come vanno costantemente alla ricerca di quelle melodie e di quella serie di armonie che sembrano insite nell’heavy svedese. Quando poi gli Agrimonia sfoggiano alcune parti semi-acustiche è quasi impossibile non pensare ai primi Opeth: sempre in “A World Unseen”, ad esempio, in coda si sente Morningrise. “Foreshadowed” apre con un post-rock semiacustico per poi svelare un death-metal melodico composto da un gioco di chitarre che alternano fraseggi e raddoppi, ancora in chiave tipicamente swedish. Dopo qualche minuto “unplugged” con “Awaken”, “Withering” pesta di più, mostrando il lato thrash-death della band, che però risulta meno convincente, senza contare che le sue parti acustiche, profumate di prog-rock, questa volta seguono forse un po’ troppo le impronte della band di Åkerfeldt. Dovremo attendere nuovamente i giochi intrapresi dalle chitarre per vedere questo brano riprendere quota. “The Sparrow”, posta in chiusura, sembra ricorrere meglio a soluzioni progressive: all’inizio si vede nuovamente una vena post-rock, questa volta però con una certa dose di synth e pianoforte, poi lo spazio viene occupato da solide strutture impreziosite dall’instancabile ricerca armonica dei chitarristi, per un’alternanza fra Opeth e Dark Tranquillity, il tutto sempre citando altri generi musicali che nel corso degli anni hanno contribuito a creare il vasto mondo estremo svedese.