ADRIANO ZANNI, Ricordo Quasi Tutto
Adriano Zanni è a Ravenna da sempre e coltiva la sua ossessione per gli scenari metafisici di certa riviera sia con la fotografia (Red Desert Chronicles è un bel libro uscito qualche tempo fa per la benemerita Boring Machines di Onga), sia standosene rintanato nella sua camera oscura sonora, da dove – dopo processi di emulsione di memorie, ruggini, insanabili nostalgie e un latente senso di indicibile deriva – se ne esce poi con polaroid nitidissime di paesaggi acustici, che sanno colpire al centro esatto del cuore.
I titoli di queste sette tracce sono didascalie di un viaggio tutto interiore, o di un’elegia per cose che non ritorneranno, perché il nostro destino è quello di passare e sparire: nel mentre ci è dato di lasciare un’orma, una scia, e Zanni sembra proprio concentrato sulla missione di mappare i segnali di questo nostro breve transito. Non a caso, infatti, l’ultimo, ottimo lavoro del ravennate, che un tempo si presentava come Punck, si intitolava Disappearing (sempre Boring Machines). Si parla di presenze destinate a essere inghiottite nel gorgo che tutto prende, di esistenze necessariamente precarie, di soglie sulle quali ci affanniamo seguendo le nostre ombre, dimenticando a volte che il nostro destino è solo uno: scomparire. Ecco allora field recordings, drone che staccano fragili inni al cielo (“Conchiglie, Cani, Gabbiani, Mare E Nebbia”), due note sdentate come un carillon di piano nella pioggia (“Paura, Fulmini E Saette”), il richiamo irresistibile di una fine in nero (“Gli Scogli, Novembre E L’Apnea”, magistrale nel suo radunare pochissimi elementi per apparecchiare una muta tempesta emotiva).
Un mood plumbeo e sorvegliato, funebre in qualche modo, abita queste sette esplorazioni liminali sul bordo del silenzio: non è un caso che le tracce siano state composte da Zanni in un momento di forzato isolamento dovuto a problemi di salute. Sono la testimonianza di un musicista che guarda negli occhi la morte, abilissimo nel dare nuova vita a elementi di arte povera, come il crepitare di un fuoco che diventa una sorta di glitch sottile: c’è un costante lavoro di orchestrazione in sottrazione, un calibrato senso di musicalità, anche laddove in mano ci ritroviamo semplicemente un sasso o poco più. Questa capacità di far parlare letteralmente le cose, di svelarne la voce attraverso una sempre misurata interazione con elementi analogici e digitali, può far tornare in mente la psicomagia elettronica di certi Matmos, anche se la sensibilità di Zanni è meno ludica e più incline ai luoghi oscuri. Che sono luoghi della vita andata e della mente, come quelli attraversati nella lunga “Onde Sinusoidali, Esplosioni Ed Inutili Ricordi”: l’estate finisce, ci sono solo un cane zoppo sulla spiaggia e un vecchio davanti alle serrande chiuse di una delle tante gelaterie sconsacrate (mutatis mutandis, lo spleen che arriva da questi pezzi suona come l’alter ego elettroacustico di quello messo in modo indimenticabile in forma canzone in alcuni pezzi dell’esordio dei livornesi Virginiana Miller, un secolo fa); restano solo un vento che taglia la faccia, muri grigi, ed inutili ricordi. “Esiste una sconfitta pari al venire corroso che non ho scelto io ma è dell’epoca in cui vivo”, cantava Ferretti coi CCCP: ecco, il suono di Adriano Zanni è quello della ruggine che divora i segnali, del tempo che tutto inghiotte. Così ci ritroviamo soli, tra fondali di archi come fotografie di inizio Novecento (“Verso Il Nulla”) o a suonare in una banda di paese che tenta un’improbabile quanto commovente versione per ottoni di “The Final Countdown” degli Europe (!), quasi a riportare a galla una tenerezza indicibile, un’innocenza per forza di cose perduta, sommersa dai detriti, dalle onde che ogni volta arrivano e distruggono il nostro lavoro. Dopo un vasto silenzio, nuovamente siamo richiamati al nulla da un bordone estatico che ci riconduce verso altri e definitivi cieli e verso la foschia nella quale siamo, senza averlo scelto, nati.
“Voglio che vi rendiate conto di tutti i suoni che provengono dall’esterno della stanza. Basta ascoltarli cercando di capire da dove vengono. Vengono dalla casa, o dall’esterno? Sono rumori prodotti dalle persone o rumori provocati dalle automobili? Dalla televisione? Dall’aspirapolvere? Dovete riconoscere tutti i suoni per poi trascurarli. Non soffermatevi su di uno in particolare. Se qualcosa vi distrae riconcentratevi gradualmente soltanto sull’ascolto. Concentratevi su questi suoni per un minuto”: così l’enigmatica voce finale (volutamente non vi svelo tutto) a chiudere un disco magnetico e capace di essere potentissimo senza alzare mai i toni; un’esperienza profonda di ascolto, che troverà perfetta comprensione in chi è nato nelle terre basse e nei regni della nebbia (anche se oramai si è persa pure quella, in questi anni dove tutto scompare), capace di raccontare uno sconforto privatissimo in maniera universale, di fare delle ferite un canto senza parole, dell’assenza di luce una scintilla. Ricordiamo quasi tutto, eppure non basta, non basta mai. Sette tracce che sono cura e veleno, monito e resoconto di un naufragio.
Molto bella anche la copertina con le fotografie dell’autore, con un bosco su toni di grigio: “è inutile tentare la fuga quando la foresta avanza, soprattutto se noi stessi siamo alberi” (Tahar Ben Jelloun).