ACRE, Different Constellation
Musica liminare, quella di ACRE, che quasi mai decolla poiché non deve passare da una parte o dall’altra, ma vuole, al contrario, tenersi sul bilico dell’implosione e dell’esplosione, della caduta e dell’ascensione. Questo carattere pontificale ci indica la possibilità sempre emergente di metamorfosi ma ne nega al contempo l’accadere effettivo, come nell’uscita ed entrata in sempre nuovi banchi di nebbia. Ne scaturisce un senso interno di lontananza e una sensazione di distacco dal suolo terrestre, non nostalgico, tuttavia, ma compiaciuto. Le cellule generative di queste sei composizioni sono sostanzialmente condivise dai quattro musicisti in maniera sinergica, così che ogni loro gesto agisce come unitotalità, e non per sommatoria. Il quartetto predilige il parametro dell’armonia timbrica su registri medio-acuti, con il ritmo libero nello spazio, sovente molto articolato, e con accenni di pulsazione a fare da agente di disturbo o da aggregante. La personalità vocale di Ludovica Manzo, pur presentandosi come un estratto quasi-enciclopedico della vocalità contemporanea (Cathy Berberian, Meredith Monk, Lisa Gerrard) è così ben amalgamata nella materia timbrica del quartetto da non farsi ingabbiare dai suddetti rimandi vocali. Laptop/elettronica (Marco Bonini) e chitarre (Gino Maria Boschi) si fanno apprezzare per varietà di soluzioni e per acume nella gestione della spazializzazione, senza perdersi in eccessive rarefazioni né autocelebrarsi in trovate o preziosismi. Il percussionismo di Ermanno Baron, che predilige sticks e spazzole, risulta incisivo, con una leggerezza che sa pungere dove occorre ed una sintassi ampia e matura dove prenda il sopravvento il lato estemporaneo ed improvvisativo. L’effetto dell’ascolto di questo album risulta quello di una profondità rovesciata, aperta verso l’alto, avendo l’ascoltatore la sensazione di poter scrutare il cielo come abisso. La malinconia avvolgente del fa diesis sospeso della prima traccia “Formula” non tragga in inganno: già il pezzo successivo “Nebula Nitida” inscena un caos ordinato il cui soggetto evanescente è il nervosissimo ed ansiogeno cantato pluristilistico della Manzo, innervato dai veloci rulli asimmetrici del batterismo “stop and go” e dal puntillismo di Bonini e Boschi. Con “Human’s Dilemma” entriamo nel cuore della poetica del quartetto, come già suggerito dalle nostre prime battute: totale sospensione liminare. Sulla stessa linea è la carveriana “Tomorrow”, tutta un sussurro fino a quando, all’altezza dell’ultimo verso della poesia (“My bowl is empty. But it’s my bowl, you see, /and I love it.”), si libera una sezione strumentale controdeterminante, inquieta, disarticolata, fluttuante. Poi è la volta di “Implantable Memories”, che inizia con una scrittura sulle pelli sincopata dai vocalizzi sillabanti della voce e procede fino alla fine per sgretolamenti e deragliamenti per afferrare il culmine di uno strozzato sovracuto diplofonico che poi scarica l’amalgama musicale in un breve ralenti. Chiude l’album “Simula”, con una invocazione portisheadiana esplicitamente rivolta alla luttuosità di un blues astrale.