ABSTRACTER, Wound Empire
Gli Abstracter, da Oakland, ci avevano già colpito col linguaggio personale e complesso contenuto all’interno del debutto Tomb Of Feathers, eppure non era prevedibile un ritorno come Wound Empire, in grado di stravolgere completamente le carte in tavola e mostrare un drastico cambio di prospettiva. Forte di una nuova sezione ritmica, la band riduce le strutture contorte per concentrarsi sulla pesantezza di fondo e si fa portatrice di un suono che prende a padri putativi gli Amebix, evolvendo l’impeto del crust in un magma oscuro e dolente, marcio e mefitico nemmeno fosse stato a macerare nelle paludi della Louisiana, ma capace di espandersi con grande impatto emotivo, come nel finale di “Lightless”, che apre il disco, o nella successiva “Open Veins”. L’artwork e i testi legati a una visione dell’umanità prossima al nichilismo completano il quadro di un lavoro basato su sole quattro tracce in grado di insinuarsi come lame incandescenti nella carne, figlie di un sentire attuale che travasa nel nuovo millennio l’approccio iconoclasta di chi ha rifiutato in blocco l’immagine da cartolina del punk per riportarlo a essere qualcosa di realmente antagonista e improponibile al pubblico mainstream. Wound Empire non rappresenta solo un salto in avanti per i suoi autori, ma li fa entrare di diritto nel novero delle realtà da tenere d’occhio per chi ama le varianti più ostili e pesanti della scena “post”, soprattutto per la capacità di curare ogni singolo aspetto senza perdere coesione o lasciarsi distrarre dalla tentazione di strafare. Tutto si piega al fine ultimo di annichilire l’ascoltatore e proiettarlo in un mondo prossimo al tracollo, scenario di una lotta impari tra la natura e l’uomo, una specie per cui la parola decadenza appare più come un eufemismo che altro. Se proprio si dovesse chiamare in causa un nome attuale, si potrebbe guardare ai tedeschi Black Shape Of Nexus, dai quali però gli Abstracter si distaccano per quel mood crust di cui si diceva in apertura e che va ad imporsi sula deriva sludge, oltre che per una maggiore ricerca nei suoni come ben evidente nella finale “Glowing Wounds”, così ricca di pathos anche nell’approccio vocale. Se questo è l’inizio dell’anno, non possiamo che essere fiduciosi.