AA.VV., Even A Tree Can Shed Tears: Japanese Folk & Rock 1969-1973
“Avevo trentasette anni, ed ero seduto a bordo di un Boeing 747. Il gigantesco velivolo aveva cominciato la discesa attraverso densi strati di nubi piovose, e dopo poco sarebbe atterrato all’aeroporto di Amburgo. La fredda pioggia di novembre tingeva di scuro la terra trasformando tutta la scena, con i meccanici negli impermeabili, le bandiere issate sugli anonimi edifici dell’aeroporto e l’insegna pubblicitaria della Bmw, in un tetro paesaggio di scuola fiamminga. È proprio vero: sono di nuovo in Germania, pensai. Quando l’aereo ebbe completato l’atterraggio, la scritta “Vietato fumare” si spense e dagli altoparlanti sul soffitto cominciò a diffondersi una musica in sottofondo. Era “Norwegian Wood” dei Beatles in una annacquata versione orchestrale. E come sempre mi bastò riconoscere la melodia per sentirmi turbato. Anzi, questa volta ne fui agitato e sconvolto come non mi era mai accaduto.” (Haruki Murakami, “Tokyo Blues”).
Chi ha letto questo libro ricorderà benissimo l’incipit: una struggente storia d’amore ambientata nell’inquieto Sessantotto nella capitale nipponica, con le musiche di Beatles, Bil Evans, Miles Davis e Doors sullo sfondo. Il periodo è il medesimo, ma le musiche qui sono diverse, sebbene il mood profondamente malinconico e l’idea di innocenza perduta siano simili. Anche un albero può versare lacrime, già il titolo dice tutto. Primo audio-documento ad uscire fuori dal Giappone del movimento angura (contrazione di underground), questa compilation è semplicemente perfetta per questa coda d’inverno fredda e nebbiosa.
La brumosa “Curry Rice” di Kenji Endo del 1971 apre con un folk intimo e in punta di dita che nasconde sotto la sua cenere commenti sul recente – all’epoca – seppuku (suicidio rituale) di Yukio Mishima. “Sotto Futari De” dell’appena diciottenne Kazuhiko Yamahira è un quadro a tinte pastello con un flauto e una leggerezza perfettamente pop appena appena sporcate da suoni acidi, la Joni Mitchell di Kansai Sachiko Kanenobu tiene fede al suo soprannome con armonie aperte, un songwriting elegantemente incline al jazz e un che di vagamente psichedelico, pur restando in piena comfort zone. Musica perfetta per il risveglio, che ha un che di struggente e di indicibilmente delicato, sa di panorami interiori remoti eppure conosciuti, rassomiglia alla nostra infanzia, al tempo che non torna. “Arthur Hakase No Jinriki Hikouki” di Kazuhiko Kato mostra un lato appena più rock della scena (più avanti il nostro approdò su Harvest e aprì per i Roxy Music), mentre Maki Asakawa ci mostra come poteva suonare una Nina Simone con gli occhi a mandorla nel 1973. Gli Happy End (con Haruomi Hosono), una delle band più influenti del periodo, sono invece puro West Coast ed il loro pezzo e uno dei più interessanti tra quelli qui riportati alla luce d’Occidente. Picco però dell’intera, corposa raccolta (ben 19 i brani, con incluse nel libretto consistenti note su ciascun pezzo e un’approfondita chiosa di Yasuke Kitazawa che fa il focus sul contesto in cui sono immerse queste musiche, che, come detto, arrivano a noi per la prima volta) è “Boku Wa Chotto” dello stesso Haruomi Hosono, conosciuto soprattutto per la Yellow Magic Orchestra, ma con una carriera multiforme e grande sapienza nell’abbracciare i materiali più diversi: qui ascoltiamo un perfetto numero di Japanese Americana che siamo sicuri sarà tra gli ascolti preferiti del geniale Jim O’Rourke, che da quelle parti si è trasferito oramai da parecchio tempo (memorabile, per chi non lo avesse visto, un video che lo ritrae ospite in una trasmissione televisiva). La raccolta prosegue col purissimo e fragile acid folk dei Gu (“Marianne”), con suoni di uccelli che aprono su una chitarra didascalica e un flauto che sembra suonato (male) da un bambino, per poi lasciare il sipario a una voce del tutto normale; eppure, per qualche inspiegabile motivo, il tutto funziona, e funziona pure bene. C’è spazio anche per un pezzo che è al 100% distillato di un Neil Young virato combat cantato da Ryo Kagawa (in questo caso vi e mi risparmio il titolo chilometrico). Da segnalare anche il languido shuffle degli Hachimitsu Pie, titolari di un unico album.
Un’operazione interessante per un risultato che alle mie orecchie però, se in alcuni casi (Happy End, Haruomi Hosono) suona benissimo, in altri nulla aggiunge e nulla toglie alle vaste terre del già sentito. Altre le operazioni affini che ci hanno fatto sobbalzare, vedi ad esempio le compilation della Vampi Soul sulla Cumbia e sul garage, o sul soul spagnolo, oppure, sempre su Light In The Attic, la compilation dedicata al Thai Funk. Certo, il Sol Levante resta la terra lontana per eccellenza, e quindi per davvero esotica ed imprendibile e sarà per questo che comunque restiamo sottilmente avvinti. Si tratta comunque di un documento interessantissimo, anche se i brividi d’Oriente, per quanto mi riguarda, negli ultimi tempi sono arrivati da mostri sacri (Akira Sakata, Otomo Yoshihide) o giovani, inesorabili, alieni (Goat, Kukangendai).
Così è, se vi pare.
Qui tracklist e frammenti da ascoltare.