A.L.M.A. Trio con Daniele Roccato, 20/7/2020
Ravaldino in Monte (FC), Area Sismica. Foto di Luciano Rossetti, Phocus Agency.
Fine settimana consacrato ai live nella mai troppo lodata Area Sismica, che ha, con le cautele del caso, riaperto i battenti per una stagione estiva che durerà fino ad inizio agosto. Progetti dedicati, residenze artistiche: lo spirito sismico resta sempre improntato ad una idea non consolatoria, non museale della musica, interessato semmai e con sempre testarda, gioiosa coerenza ad un approccio volto alla ricerca dell’inaudito, del desueto, del non preconfezionato. Balsamico, necessario ed intimamente, profondamente politico tanto più in quest’epoca malmessa che ci è data in sorte, funestata da democratici ed ipocriti ministri che vendono il loro nulla cianciando di Netflix della cultura. Contro i surgelati scaduti di regime, contro la fitta nebbia dell’omologazione, l’unica strada da percorrere resta quella di una cocciuta, orgogliosa e febbrile ricerca della bellezza nella differenza e nella divergenza, avendo come faro, in questa lunga notte culturale che l’Italia sta attraversando, il convincimento che è possibile coltivare le cose con un amore diverso, si possono far crescere altri fiori nel giardino dei suoni. I trent’anni – che ricorrono in questo strano 2020 – dell’eroico circolo Arci romagnolo con le orecchie spalancate al mondo ne sono la dimostrazione plastica. Sabato Fabrizio Puglisi, che abbiamo da poco intervistato, ha sonorizzato due straordinari mediometraggi di Chaplin di oltre cento anni fa. Questa domenica invece è il turno del trio di Fabrizio Ottaviucci (pianoforte), Antonio Caggiano (percussioni) e Gianni Trovalusci (flauto traverso), ai quali si aggiunge per l’occasione il contrabbasso di Daniele Roccato, visto di recente al Ravenna Festival con i magici Ludus Gravis. Interpreti sensibili, coraggiosi e preparatissimi, abituati a navigare il mare magnum della contemporaneità (e non solo), ma capaci assolutamente anche di improvvisare: proprio a questa religione dell’istante, a questo laico rituale capace di svelare misteri è consacrato il concerto, che propone musiche che si rivelano nel loro stesso farsi, mostrando oltre a bei lampi talora anche incertezze o un che di interlocutorio, quasi, dopo tanto stare davanti ad uno schermo, non fosse semplice né automatico ritrovare immediatamente il filo dell’ispirazione e del dialogo. Movenze circospette, si torna giocoforza dal silenzio con il fardello d’ombra che questo periodo pesante ci ha messo sulle spalle, e allora i suoni sono il nostro documento di perdita, i numeri del catalogo del nostro disorientamento, il diario di una deriva. Idee che fuoriescono improvvise e sotterranee come geyser, le viscere del pianeta che accordano i loro strumenti, un discorso che procede per analogie, sfidando gli agguati dei sinonimi e della retorica e facendo riaffiorare asciutte nostalgie di quando ancora non avevano parole (una musica che non racconta d’altro canto torna al tempo in cui non eravamo separati dal mondo), con Trovalusci sempre vivace e pronto ad aggiungere domande ad altre domande, a mettere altre perle di disordine in quello che appare disordine ma forse ha il limite di non avere la forza di sfociare nel caos. Predomina in effetti in generale un approccio austero, diremmo zen, quasi ci fosse a tratti il timore di dire troppo, e si resta così a scrivere, come l’incauto cronista al buio sul suo quaderno di appunti, note a margine di un silenzio intimo e lontano, foriero di una intraducibile malinconia, che forse è quella del tempo allagato in cui viviamo. Bagliori, intermittenze, e quel poco di Dio che resta da invocare in questi giorni dispari e spettinati. Poi altri appuntamenti col buio, un vibrafono che scoiattola nel buio, l’evolversi del dubbio, ad un passo da un jazz informalissimo. Poi una specie di ipercinetico, ruvido drum’n’bass iperastratto con Ottaviucci sul registro grave ad estrarre una vena di suono minerale, e ceneri quasi di swing dopo un diluvio di anni, intenzioni, secoli. Un incipit coi campanelli fa pensare alle proverbiali aperture rarefatte degli Art Ensemble of Chicago (Trovalusci del resto collabora da tempo con Roscoe Mitchell), a seguire un bordone sottile, irrequieto, ineffabile, tra seduzione e sedizione. Un invito a sparire, a tacere, una vaghissima aria di folk di un altrove dell’est, di steppe che non sappiamo e che comunque ci appartengono.