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IN ZAIRE, White Sun Black Sun

White Sun Black Sun

Ancora ho in mente la sera che li vidi al Netmage, era un sabato invernale di un paio di anni fa, e prima di loro c’era stato Thomas Köner, per dire della varietà di proposte dell’ex festival bolognese. Sin dalle prime note capii che dovevo andare oltre la vaga somiglianza coi Mogwai (confesso: lo pensai…), anche perché un mix cosi esplosivo di primitivismo rock confluito in mille generi, tra batteria che percuote senza mai cedere un attimo alla stanchezza e chitarre perse in un mare di feedback che neanche i Trans Am sotto peyote… io non l’avevo mai udito prima. Poi scopri che nella pattuglia c’erano Claudio Rocchetti (¾Hadbeeneliminated, Olyvetty e altri), Stefano Pilia (Massimo Volume), Alessandro De Zan (G.I. Joe e Orfanado) e Riccardo Biondetti della Sound Of Cobra, e il gioco è fatto. White Sun Black Sun è il loro album lungo degli In Zaire (in formato lp, per la precisione) e si rivela lavoro solido e in possesso di un notevole fascino arcano.

“Mars” è deragliante blues racchiuso in una gabbia kraut che sfavilla, “Venus” è texture elettrificata figlia della massima urgenza espressiva, “Mercury” si beve tutto d’un fiato il funk di James Chance And The Contortions, rendendolo scoria nucleare da bonificare a suon di scuola tedesca, non dimenticando mai la lezione minimalista (caratteristica, quest’ultima, che è ben presente nella testa dei quattro). Ulteriore tratto estetico da non prendere sotto gamba è una sorta di mood vicino allo space rock, quindi una forma di latente psichedelia che rientra dalla finestra quando meno te lo aspetti: “Jupiter” sembra far da sponda a questa ipotesi e la finale “Saturn” è cattivissima nel suo essere terminale. Ai quattro piace agire come persi in un’estenuante jam, senza mai perdere di vista una rigida idea di fondo, però: non sembrare mai scontati. L’intero disco risulta in effetti curato nei particolari, ma al contempo è sfuggente, nel senso che ricorda tutto e il contrario di tutto (cosa non da poco), inoltre dimostra la sua capacità di evocare spersonalizzanti déjà vu in forma di note. Aggiungiamo per onestà che il nostro è un giudizio ancora sommario, visto che più lo ascoltiamo e più rimaniamo soggiogati da composizioni come queste. Di una cosa siamo certi, però, e non è solo un azzardo, credeteci: White Sun Black Sun si candida a uno dei dischi dell’anno in corso, sin da ora.

Tracklist

Side A

01. Sun
02. Moon
03. Mars

Side B

04. Mercury
05. Jupiter
06. Venus
07. Saturn