WITCH MOUNTAIN, Cauldron Of The Wild
Quello che mi ha più colpito di questo nuovo album dei Witch Mountain, doom band americana proveniente dal fertile underground di Portland (Oregon), non è stata tanto o solo la pesantezza “metallica” del suono ma anche, e soprattutto, l’incredibile carica sensuale del blues che trasuda, bollente, da ognuna delle tracce che compongono Cauldron Of The Wild.
Si sa che ai doomsters piace parecchio giocare con streghe, maghi, pentoloni, funghi, mostri vari… quando si tratta di scegliere nomi di band, album e tracce. Magari qualcuno sorriderà per quanto qui tutto sia smaccatamente “doom”, ma i Witch Mountain hanno sempre fatto e continuano a fare sul serio, e a produrre della grande musica, forse non innovativa, però molto coinvolgente.
Formatisi alla fine degli anni Novanta, e ispirati da un’assoluta dedizione ai riff sporchi, alle atmosfere sabbathiane e al groove dello stoner, i Witch Mountain hanno per certo dato il loro contributo alla scena heavy doom americana. Il demo Homegrown Doom e soprattutto il bell’album d’esordio Come The Mountain (2001) hanno delineato lo stile possente e contagioso della band, qualcosa à la Acid King/Yob che ammicca a sonorità degli anni Settanta. Grazie a tutto questo, il trio (i co-fondatori Rob Wrong e Nate Carson, rispettivamente a canto/chitarre e a batteria, e Dave Hoopaugh al basso) è riuscito anche a svolgere un’intensa attività live assieme a molti grandi nomi tra il 1997 e il 2002.
Dopo anni di ibernazione la band è tornata alla ribalta nel 2011 con l’album autoprodotto South Of Salem e una novità: l’ingresso di una quarta persona, la giovane Uta Plotkin, in veste di cantante. Be’, South Of Salem è una bomba, fatta di doom/stoner psichedelico denso come pece e intriso di blues seducente e sporco, interpretato sin da subito in modo viscerale da Uta, una ragazza graziosa che, nonostante l’aspetto quasi adolescenziale, è capace di una performance strabiliante, “alla Janis Joplin”, anche se la sua voce è molto più melodiosa.
In generale, non impazzisco per le voci femminili melodiche nel metal (anzi…), ma devo ammettere che nel panorama doom/stoner ci sono alcune interpreti capaci – anche in presenza di una voce particolarmente dolce come quella di Uta – di non estremizzare o rendere stucchevole la carica melodica intrinseca del doom che interpretano, ma di creare delle vere e proprie “malìe”.
Ebbene, in primavera del 2012, con un nuovo bassista, Neal Munson, e con il travolgente album Cauldron Of The Wild, in uscita tramite Profound Lore, i “nuovi” Witch Mountain fanno il bis e pubblicano un altro entusiasmante vortice di doom e blues hendrixiani, della durata di quarantacinque minuti. I sei corposi brani del nuovo disco rispecchiano in pieno lo stile ruvido e appassionato della band, già ben coniugato in South Of Salem e – se possibile – lo caricano ancora di più, forse anche grazie alla produzione fenomenale a cura di Billy Anderson.
Il blues paludoso e vecchio stile, la vera “musica del diavolo”, qui è sovrano, e al suo massimo di seduzione: basta ascoltare la traccia di apertura,”The Ballad Of Lanky Rae” per venir letteralmente stesi. Qui la voce della “strega” Uta è forse più intensa e melodica che mai, ma anche molto variegata, e la forza che sprigiona è pari quella delle vibrazioni dense emesse dalle chitarre. Come nel precedente album, non mancano occasioni di interagire con la voce distorta e sinistra di Rob, in duetti che spesso turbano l’idillio della melodia, come ad esempio nella bella e cupa “Veil Of The Forgotten”. Non mancano neppure stavolta dosi generose di riff alla Tony Iommi, rallentati, distorti e sinistri, praticamente l’ossigeno dei drogati di doom, più contaminazioni stoner. Però ci sono anche cavalcate epiche condotte da costruzioni dinamiche che certificano l’abilità tecnica dei musicisti. Si senta, ad esempio, la seconda traccia “Beekeeper”, o la parte finale della terza (“Shelter”). Forse è la già citata “Veil Of The Forgotten”, costruita da un impressionante intrico di riff, quella più travolgente e oscura. La band riesce anche a evocare atmosfere doom ipnotiche, quasi da Sleep, rallentando ancor più il canto e la scansione delle note, che talora finiscono per vibrare negli intervalli di silenzio che le separano. Una lentezza fatta per assaporare e assorbire quasi fisicamente la musica, i singoli riff, come in “Shelter”, oppure per evocare un senso di occulto o di malinconia, come si apprezza in particolare nella lunga ballata “Aurelia”. L’altra ballata, “Never Know”, che chiude l’album, è dominata (ancora) dalla lentezza, dal silenzio e dal languore doloroso del blues evocato, all’inizio, da rare note e dai lamenti e sussurri di Uta, come in una nenia un po’ triste. Fino a quando, dopo cinque minuti, esplode il doom dei Witch Mountain, tutto, magmatico, batteria, basso, gli acuti di Uta e un lungo assolo di chitarra di Rob da brivido…
Degna conclusione di un album magico, di nome e di fatto.