Trip Invocations: la musica degli Hermetic Brotherhood Of Lux-Or
Riconoscibilità di un “viaggio”.
La curiosità, il bisogno di esprimersi a tutti i costi, la particolare propensione a sondare terreni poco battuti dalla cultura dominante, alimentati in sostanza da un logico isolamento geografico: a questo viene da pensare quando ci si avvicina alla musica della band di Macomer, Sardegna nord orientale, città operaia dove Mirko Santoru, Andrea Ev e Laura Dem operano da tempo, anche se la line-up rimane sempre aperta e instabile, ed ha subito parecchi cambiamenti nel corso degli anni. Si sa che alcuni di loro provengono anche da esperienze in campo grindcore, dagli Ass Ache per la cronaca, giusto un paio di oscuri demo usciti a inizio Novanta (il moniker è tutto un programma, e l’ispirazione viene direttamente dal catalogo Earache, provate a consultare il database Encyclopedia Metallum). Va aggiunto che il primo nucleo della band è nato dalle ceneri di un’esperienza direi singolare e “sinestetica”, gli 8 Afrodisiaci Fatti In Casa, che proponevano esibizioni tra il musicale e la performance tout court, preparando il terreno alle acque torbide che questi signori avrebbero provato a raccogliere, mettendole successivamente in forma di musica. Il risultato è una materia poco raccomandabile ai “deboli di spirito”, che lascia tracce di sporco nell’anima: in fondo cosa può essere secondo voi una formula che si basa sull’evocazione e la ripetizione ai limiti del mantra se non una forma di blues, in questo caso specifico più nero della pece?
Gli Hermetic Brotherhood Of Lux-Or, come loro stessi amano ricordare, sono una filiazione-golem della Trasponsonic, che esiste da più di vent’anni ma è stata ufficialmente fondata nel 1999. Si tratta di carbonari come pochi altri nei dintorni, tanto che la band sembra ancora, in parte, intrappolata a forza in un suono — diretta espressione delle urgenze del momento e della relativa povertà di mezzi a disposizione — che ricorda molto quel periodo, alludo alle timbriche delle chitarre e a una forma di “produzione” che mette su nastro solo l’essenziale, che più lo-fi non si può, e rimane nebulosa testimonianza di una propensione a forgiare “psichedelia malata” venata di rumore. Badate bene che non sto scrivendo della psichedelia che sarebbe facile immaginarsi, poco a che fare con Pink Floyd o reminiscenze americane figlie di 13th Floor Elevators e compagnia, ma di quella musica cangiante e dalla corteccia dura assimilabile anche alla recente cosiddetta Italian Occult Psichedelia, fermo restando che loro hanno iniziato molto prima. Aggiungete che gli Hermetic Brotherhood Of Lux-Or provengono da rigorosi studi antropologici, necessari per comprendere appieno – e per diffondere il più possibile – una cultura millenaria e complessa come appunto quella sarda, che caratterizza di molto la loro proposta, che non faccio fatica a definire unica nel suo genere.
Un (utile) passo indietro nella Storia
Hermetic Brotherhood Of Luxor è una sorta di organizzazione occulta che vede la sua prima incarnazione verso la fine dell’Ottocento del millennio scorso in Inghilterra, il suo fondatore è un certo Peter Davidson. Successivamente si ispirano a quella setta personaggi piuttosto influenti anche per le culture musicali più estreme del dopoguerra del secolo scorso, come Aleister Crowley: in sostanza si occupavano di Teosofia, complessa dottrina mistico-filosofica. Riallacciando tutti questi fili, viene naturale pensare a come il collettivo sardo si proponga, con tutta probabilità, di tornare ad una forma il più primitiva possibile di musiche della terra, adatte per invocare una rinascita filosofico-culturale che contempli la ricostruzione a partire dalle macerie tecnologiche che la società dell’industrializzazione ha portato anche dalle loro parti. Il cerchio si chiude perfettamente se ascoltate gli album dei quali mi appresto a raccontare, e come al solito c’entra pure quell’invasato di Julian Cope. Tutto torna, sempre.
Ripartire dalle macerie, o meglio fare ordine nella discografia
Premetto che penetrare a fondo in queste musiche non è stato, e forse mai lo sarà, facile e indolore.
Il primo vagito è a nome Umungus Fungus (2007). Tanto per chiarire da dove si comincia, qui il riferimento alle amanite velenose non solo è ideale, ma pure sostanziato da un evidente risultato artistico. Un vero e proprio trip che è difficile non pensare come il risultato di un’assunzione effettiva della specie in questione. Lunghe ed articolate fasi percussive, e canti stordenti che si rincorrono in loop, danno forma ad un pesante baccanale (che supera in abbondanza l’ora di esercizio) di psych-folk storto e ripetitivo, pensate per un attimo al Ghédalia Tazartès di “Un Éclipse Totale De Soleil”. Dentro c’è un cut-up ossessivo ed alienante racchiuso in una sola traccia composta da ecolalie, segnali Morse, e rumorismi assortiti che si accavallano e fanno perdere l’orientamento. Dalla terra fuoriesce il primo fungo che poi invaderà l’area circostante. Si parte col piede giusto.
L’anno dopo è la volta di Urano 1. Qui le istanze free-rock si innestano decise in un impianto sempre difficile da catalogare, diciamo a cavallo tra modalità space-rock, in “1986U2R”, ed inquietanti mondi interstellari, prima degli Gnod per intenderci. “GAMMA 48290 3-9” è invece una spessa lastra di metallo che provano a contorcere senza riuscirci, traccia storta come poche quella, e “ETA 47190 0-2” è una serie di percussioni vagamente industrial e senza compromessi, come immerse in un mare profondo. Con quest’uscita la band si sposta leggermente su di un versante meno estremo, c’è voglia di esperire minore brutalità e maggiore dedizione nel circoscrivere un discorso che tende comunque a scivolare in forme di stampo improvvisativo (“YOTA 47630 1-42” è posa acid che ricorda un solitario Genesis P-Orridge particolarmente ispirato).
Dello stesso anno è l’altra parte, Urano 3. Anche qui, un’unica, estenuante traccia che supera l’ora (registrata live come tutti i loro lavori) che parte ritmica e vagamente Ottanta e vaporosa, per poi proseguire senza colpo ferire aumentando la reiterazione fino a farla sembrare una cerimonia degna dei Can più cocciuti. Qui le loro peculiarità si mescolano con forza, la solita percussività cieca e robotica à la Jaki Liebezeit, il sax in lontananza, e le chitarre che sembrano fare altro, come dei Chrome che perdono il senno e si sfilacciano sempre più col passare dei minuti, confondendosi ad arte in nebbie psych. Album affascinante, certamente ostico, musica “dionisiaca” pensata/suonata in totale libertà, senza apparenti confini e per ascoltatori abituati a smarrirsi durante viaggi che non prevedono alcuna meta.
Saint Lux arriva nel 2009. Nel disco, dedicato a Marinetti e Artaud, si fanno notare l’assalto virulento di “Neuros Firing”, la tempesta sonica quasi in odore di black metal di “New Mexico Luminous”, e le bastonate nei denti a forma di chitarre impazzite di “Stoned Metal Morph”. Posso aggiungere molto poco, data l’esauriente e sempre fantasiosa descrizione che ne dà in proposito l’attento e già citato Julian Cope, come tutti sanno vero e proprio esperto di sonorità legate al Krautrock, assiduo frequentatore della band sarda e peraltro della stessa Sardegna. Il fondatore dei Teardrop Explodes scrive: Next up, you just gotta catch SAINT LUX by Hermetic Brotherhood of Luxor. Released on Trasponsonic Records, this chaotic whirlpool of Italian bare-faced, bare-back devilry inhabits the wild free realms of religion’s end: Ragnarok starts here Motherfuckers! Hard to believe these wild spirits hail from the southern Catholic climes, but dammit this is hot as mid-60s Elevators, as unstinting as 90s Monoshock, as inchoate as ELECTRONIC MEDITATION-period (and Conny Schindler cello’d) T. Dream, and currently occupies in my mind the larger place. Although I formed Black Sheep as an antidote to Post-Everythingism, I’m still big enough to admit that Saint Lux demands the Post-Everything and GETS the Post-Everything, herein scoring 100% where even stealthy practitioners such as Temple of Bon Matin regularly score only 75%. This record is as dense and as sustained a Vox Clamentis in Deserto as any this year, an (in places) almost free-jazz/almost Krautrock landslide of the kind Wolfgang Dauner alone mustered up at the dawn of the ‘70’s. This is a big fucking statement; possibly a future Album of the Month. Thank you gentlemen, you rocked me to the corpse!
Arriviamo cosi alla serie “etnografica”, che si apre con un doppio cd. Partiamo da Ethnographies Vol. I – Musèe De L’Homme Hermètique, che continua a sondare il terreno fertile della ricerca, in sostanza si prosegue nell’andare a caccia di sonorità il più possibile perse nel tempo. La prima parte procede selvaggia, si ascolti “1”, la sezione è denominata Gup Alak TUM, verso un rito di iniziazione dove un flauto comanda la melodia e si dimena tra le percussioni e le voci inquiete nel fondo, la registrazione in pratica è sempre una sola e quanto più possibile fedele al buona la prima. Al solito ossessivo ed oscuro il clima generale, per qualche istante viene alla mente pure il Canzoniere Del Lazio, ma da un’ottica di chi vive appartato e nell’isolamento più assoluto, e non si cura di mode e correnti culturali magari più immediate, qui l’unica corrente possibile è quella che alberga sotto i piedi, nelle tombe dei loro antenati. La terza traccia pare una frastornante pièce electro-folk che vi trasporta in uno strano ed oscuro rave (… quelle ritmiche ostinate e sorde) come una techno alla quale è stata tolta la parte midollare, che somiglia ad un’anima in pena che danza svagata, e col passare dei minuti sempre più lentamente, tra le strade buie di Macomer. La seconda parte prevede un’intro fantasmatica – che fa capire bene dove si va a parare – somigliante a una neanche tanto metaforica discesa agli inferi. Si notano le sirene di “I” perse nelle spirali del sax, mentre in “IX” gli strali chitarristici risultano asfissianti e selvaggi, e la voce ricorda le follie di Yamatsuka Eye dei Boredoms, a sottolineare il violento giogo al quale state prendendo parte. In “III” aleggia uno spirito quasi druidico ed errante, tra sibili e canti opportunamente ebbri e disperati, e “V” chiosa degnamente con un sax in solitaria, sembra quasi di stare ad ascoltarlo persi in una tempesta di sabbia tossica su Marte.
Il cielo è plumbeo, con sfumature rosse al tramonto. Una capra ulula a Saturno. Una pistola nell’ombra. Le nuvole passano veloci squarciate da raggi di sole accecante. Il paesaggio è verde intenso, in alcuni punti ancora riarso. All’orizzonte si scorgono sagome di fabbriche chiuse circondate da supermercati, da uomini a cavallo, da animali al pascolo.
Chiese campestri nell’agro. Pioggia e devozione. Carne da fare a pezzi, fuoco. Nuraghi, betili, tombe dei giganti, domus de janas, templi a pozzo. Un inceneritore.
Rifiuti solidi urbani. Boschi sacri. Fabbriche e chiese deserte.
Pure Ethnographies Vol. II – Musèe De L’Homme Hermètique è diviso in due parti dalle intestazioni piuttosto ironiche: una è intitolata Jesus And John Wayne e l’altra … And Justice For Hollywood. Nella prima si va giù pesante di feedback e riverberi persi nell’aria (la nerissima “Gravity Sucks”), con voci dal sentore galásiano che si accavallano (“Hyperion Sunset”), provando addirittura l’imitazione – credo sempre sarcastica – di umori western-rock à la Gun Club, nella travolgente “Hydrogen Whiskey”, mentre in “Orbitronio” sembra di ascoltare un Blixa Bargeld indemoniato. La mattanza prosegue in … And Justice For Hollywood, con le note delle storte “Orange Gula”, un divertissement quasi electro-black-metal da brividi (possono venire in mente anche i Ministry più ferali), e le livide “Azure Acedia”/”Violet Superbia”, poste in apertura (mi sono immaginato Alan Vega legato a un palo che prega di non venire investito da un camion). Se “Red Ira” è una chiamata che sa ancora di assalto industrial, “Blue Luxuria” è un voodoo-rock macilento e nerboruto, ma a un certo punto non manca il canto-sberleffo à la Bee Gees, per dire di quanto sono fuori e liberi questi musicisti. L’allarmante “Yellow Avaritia” chiude con un tracciato noise-drone da dopo-bomba, con la chiosa contenente un rilascio tensionale ed emotivo piuttosto spiazzante (il lungo minutaggio enfatizza il tutto). In definitiva si tratta di un lavoro all’apparenza più circoscritto, ma è chiaro che sto semplificando. Intendo più che altro sottolineare che qui ci sono delle linee “melodiche” forse più evidenti, ma sofferte, che vanno ad alimentare un fioco bagliore di luce in un discorso generale che resta pervicacemente plumbeo e, va da sé, molto poco addomesticabile. Staremo ancora a sentire.
Musica da vedere
La Rivolta Di Iside – A Psychic Movie By Trasponsonic
Sounds, dreams, voices, ruins, visions, nightmares into desolate towns. A journey that will take you deeply, inside yourself where only the ones kissed by light can enter…
Il dvd appena uscito è, con tutta probabilità, la chiusura di un cerchio, nota è la loro passione per il cinema, e per altri linguaggi affini, teatro e letteratura in primis. La Rivolta Di Iside assomiglia ad un freak-movie quasi del tutto muto, ispirato dagli scritti e dalle teorie di Antonin Artaud, ed è girato tra il 2002 e l’anno in corso. Il commento sonoro è dell’intero collettivo, proviene da una session improvvisata risalente al 2003. In trenta minuti assistiamo a quello che pare un viaggio sostanzialmente notturno e preda di deliri alcolici, con scene e musiche al contrario, che vede come protagonisti i musicisti stessi, intenti ad affrontarsi al buio; a un certo punto una di loro viene inseguita nei vicoli del paese come fosse una strega-bambina e successivamente viene fatta a pezzi in un cortile, ma labile rimane il confine tra sogno e “realtà”, tra finzione e realtà. La definizione di “psychic movie” perciò ci sta tutta. Immaginatelo come un Louis Feuillade in trasferta in Sardegna al servizio di Giovanni Pastrone (quello “Cabiria” e “Il Fuoco”). Certamente è un sentito omaggio al cinema dei primordi.
Collateral
La Trasponsonic è, come già accennato, mostro a più teste, quindi ha parecchie diramazioni/alter ego: Andrej Porcu, Ersilio Campostorto, Antonov, Maqom… potete fare la loro conoscenza visitando il sito Spreaker.com, lì sono inserite una serie di puntate radiofoniche che permettono di approfondire il mondo nero e multiforme di questo gruppo di persone. Vi segnalo però un paio di eccezioni — passatemi la forzatura — più corpose. Quella a nome MsMiroslaw, Rebirth Invocations – Ritual Chants For The Vulture Goddess, che ha destato più di qualche curiosità tra addetti ai lavori ed appassionati. Subito colpiscono le dediche: a Leonardo Da Vinci, alla saggista sarda Dolores Turchi e al poeta e romanziere inglese Robert Graves. Uscito nel 2013 e farina del sacco del solo Mirko Santoru, qui si mette in pratica ancora una volta un lungo e sinistro cerimoniale, ricordo che la registrazione è effettuata in inverno nella grotta di Nasprias, sempre nei dintorni di Macomer, con la collaborazione attiva di Simon Balestrazzi (T.A.C., Kirlian Camera) nel brano d’apertura, “The End (Revelation Came)”. Qui il musicista nato a Parma mette a disposizione un salterio preparato (citazione del Re Davide che suona il salterio nell’altorilievo di Benedetto Antelami del Battistero parmense?), gong e synth. Se non riuscite a immaginare il risultato finale, pensate per un attimo a un documentario di Luigi Di Gianni debitamente musicato con gli strumenti più improbabili, compreso un teschio di cavallo amplificato, infarcito con violenta precisione di montagne brulle e teste di caprone che affiorano d’improvviso davanti ai vostri occhi, credo di essere stato eloquente. Il resto del disco prosegue verso un binario, rigorosamente morto, dove ad attendervi ci saranno solo polvere e rovi che girano solitari in una notte di gelo, con sullo sfondo un santone mascherato che salmodia solitario, “Jumis (Calls The Dyonisian Orgy)”. Altra cosa che colpisce: la sensazione è che qui Santoru faccia davvero sul serio, quindi siete avvisati.
L’altra pubblicazione degna di nota, uscita sempre nel 2013, è il disco Ethnopsychic Trip Project – Echoes Of The Remote Lands, del solo Andrej Porcu, nel quale spiccano gli orientalismi febbrili di “Aitøvet Kaitør”, la rivisitazione para-folk in salsa indiana di “Tri Satwenij Bøle”, la passeggiata occulta di “Groput Vibe Kraiet”, estrapolata da un’estemporanea session berlinese, la percussiva ed ottundente danza al limite della trance di “Navezuf Quezu Da Lørut”. Più l’album scorre e più si avverte la sensazione di stare ad ascoltare una sorta di colorato ritual-blues dalle tinte minimaliste ‒ evidente è infatti è l’uso di reiterazioni ‒ debitamente concentrato. Viene poi in mente un’orchestra di Gamelan in “Samebes Patu Nepet”, ma lo strumento utilizzato è una chitarra preparata, e la brevissima chiosa di “Ende”, in pratica un assolo di armonica a bocca, lascia intendere di future mosse sempre poco prevedibili.
Conclusioni possibili e introduzione all’intervista
Gli Hermetic Brotherhood Of Lux-Or— chiaro che va tenuto conto dell’intero collettivo che naviga attorno e che dà e toglie vita agli innumerevoli progetti sopracitati — rimangono oggetto misterioso per eccellenza. Il loro innato fascino sta in quella sorta di impenetrabile ed atavica bellezza. Distopica, polemica, espressione di una lontana provincia che è vitale quanto e più di una qualsiasi metropoli, popolata da individui che si fanno continue domande. La loro musica cerca, senza sosta, risposte che forse mai arriveranno. In un certo senso si tenta di andare oltre il concetto di “musica” stessa, provando a capire cosa ci succede attorno e perché si è solo di passaggio a questo mondo, tramite l’incessante invocazione dei nostri antenati. Per tutti risponde Mirko Santoru.
Innanzitutto fammi dire che in questi ultimi mesi, dall’estate in pratica, la vostra musica mi ha accompagnato e m’ha fatto capire una cosa su tutte: che siete una band “fuori” come poche. Sei /siete coscienti del fatto che chi si avvicina al vostro lavoro possa anche lasciarsi alle spalle parecchi neuroni.
Si tratta di una preoccupazione reale, in quanto non è la prima volta che giornalisti, critici o semplici ascoltatori, ma in realtà anche membri della stessa Trasponsonic, hanno perso la testa dopo aver semplicemente ascoltato il nostro materiale o partecipato fisicamente alle nostre performance. Molti sono proprio spariti nel nulla. C’è anche molto timore nell’ospitarci per concerti e performance. Se dobbiamo essere sinceri eravamo un po’ preoccupati anche per te. Ma dopo l’immersione, se siamo ancora qui a parlare, significa che la tua iniziazione è andata a buon fine. Ora ti puoi considerare membro onorario della Hermetic Brotherhood Of Lux-Or.
Partiamo da un ipotetico inizio: chi è nella band ora, chi ci è stato in passato e soprattutto come prendono vita la Trasponsonic e successivamente gli HBOL?
La formazione con cui abbiamo girato negli ultimi tempi è composta da MsMiroslaw, Laura Dem e Andrea Ev. Non c’è una formazione stabile in nessuno dei dischi di HBOL; si passa da un minimo di tre a sei elementi. Ne hanno fatto parte, oltre i tre succitati, anche Ersilio Campostorto, Andrej Porcu, Antonov, Solidea Surya, Neurat, Gabriel L.B., Tonj Santoru. La Trasponsonic nasce a fine anni Novanta nell’oscura cittadina di Macomer, crocevia centrale dell’Isola, un mix di arcaico e realtà industriale ormai in piena fase di decadenza. Un’incredibile concentrazione di menti fuori posto nate e cresciute nel territorio che per coincidenze straordinarie hanno prima di tutto incrociato le proprie vite (soprattutto le proprie angosce esistenziali) e solo in un secondo momento le hanno esplicitato attraverso il mezzo sonoro. Gli HBOL nascono alla fine del 2007, come libero mezzo per esprimersi, al servizio di un progetto forte, aperto, rappresentativo di tutte le potenzialità di mutazione sonora possibile. Un mezzo per ricomporre le frammentazioni all’interno del gruppo e dare voce unica al nostro messaggio.
Mi dici cosa significa per voi registrare musica con questo nome, e perché preferite mettere su disco versioni “live” delle session? Mi pare di capire che non effettuate, per scelta, una vera e propria produzione dei pezzi.
Da quel momento in poi HBOL diventa lo strumento principe di improvvisazione collettiva. Tutti i dischi di HBOL sono documenti puntuali di veri e propri rituali di produzione sonora, libera e non programmata. Non vi è una manipolazione a posteriori, sono fotografie non ritoccate di eventi realmente avvenuti. Anche le tecniche di registrazione sono le più varie possibili. Telecamere, nastri magnetici, microfoni ambientali, pura etnografia. Ecco perché scegliamo di non mutare l’anima delle performance. Hai colto nel segno.
E come vi preparate fisicamente alle vostre performance? Vi avvalete di “tecniche” particolari di concentrazione?
La Musica era parte integrante della Celebrazione dei Misteri e, come insegna la Tradizione, si fa tutto il possibile per entrare in uno stato di comunicazione con gli elementi. Ci si può avvalere di alimenti e piante sacre. Si tenta di produrre la giusta curvatura dello spazio-tempo che solo il suono primordiale può riprodurre.
Quali sono i modelli ispiratori della band? intendo quelli legati alla vostra terra, ma anche gli ascolti che avete fatto in passato chiaramente.
Più che modelli ispiratori, c’è un’aria o forse forme particolari di gas o radiazioni, e il senso arcaico del sacrificio che si respirano, che su questa terra ti portano a reagire con forme particolari di sopravvivenza. Una di queste è certamente la musica, ottima per dare tono al deserto e per accendere un fuoco che ci riscaldi. Siamo sempre stati divoratori di musica a 360 gradi, o almeno di tutta quella in grado di toccarti nel profondo.
Julian Cope è un vostro fan, tutti sanno che lui adora la Sardegna e che ci ha pure ambientato il suo primo romanzo, “Uno Tre Uno – Viaggio hooligan gnostico sulle strade della Sardegna e del tempo” (Elliot Edizioni). Lo avete letto?
Purtroppo ancora no, ma lo faremo presto. L’incontro della nostra musica con Julian Cope è una di quelle congiunzioni astrali che ha sempre il gusto dell’incredibile, anche se siamo pienamente convinti che ci siano nell’universo menti in comunicazione attraverso canali non ufficialmente riconosciuti. Forse facciamo parte di una specificità umana (o no?) particolare, o almeno ci piace pensarlo.
Ora dimmi come vi trovate nel – uso dei paroloni, lo so – mondo underground di casa nostra. Nel senso, avete rapporti con altre band ed etichette? Seguite in particolare alcuni di loro, “odiate” un certo tipo di musiche?
Viviamo per la maggior parte del tempo un forte isolamento, e non sappiamo bene se quella che intendi sia realmente casa nostra. Ad ogni modo nel corso della nostra esistenza abbiamo avuto l’opportunità di conoscere gran parte delle persone che operano nel mondo underground italiano e non solo, con cui abbiamo sviluppato principalmente rapporti umani piuttosto che professionali. L’odio è un sentimento troppo impegnativo per noi impegnati a vivere giorno per giorno.
La “faccenda” Italian Occult Psychedelia vi ha portato dei benefici? E se sì, di che tipo?
Sicuramente ci ha permesso di avere un minimo di visibilità in più. Siamo sempre stati dediti a sonorità oscure e lisergiche, fin da tempi non sospetti. Ciò che pensiamo è che abbiamo e continueremo ad avere una nostra cifra stilistica al di là delle classificazioni di genere, per quanto il più trasversali possibile.
Come vedete dal vostro particolare “osservatorio” la complessa cultura musicale italiana? Mi riferisco a quella legata al rock ed alla sperimentazione. Voglio dire: credete che i gruppi di oggi siano meglio di quelli del passato? Pensate che le tecnologie abbiano in qualche modo modificato/migliorato il modo di comporre, e di conseguenza i gusti degli ascoltatori, o la questione non vi interessa più di tanto?
Talvolta abbiamo l’impressione è che, a parte rarissime eccezioni, in Italia si tenda sempre a seguire il trend del momento o a rifarsi a grandi modelli del passato. Non vediamo e percepiamo la sofferenza, la realtà di cose e persone, in molte delle musiche di oggi. Nonostante, o forse per colpa della troppa tecnologia a disposizione, unito a conformismo e atteggiamenti da salotto.
Voi ne usate molta di tecnologia? E come viene percepita in primis, ed utilizzata poi, da una band che ha fatto del recupero di lontane radici, e magari anche di strumenti della tradizione, una sorta di missione?
Purtroppo o per fortuna non abbiamo mai avuto grosse disponibilità di mezzi, usiamo il minimo indispensabile per poter rendere fruibili i nostri lavori. La mancanza di risorse spinge sempre ad ingegnarsi se si vuol sopravvivere. L’eccesso di mezzi crea spesso il vuoto.
Una curiosità legata al dvd appena uscito, “La Rivolta Di Iside”. Sembra che l’avete girato quasi di nascosto e in notturna. Io ci vedo una vicinanza col cinema muto dei primi del Novecento, in particolare con quello di Louis Feuillade (il regista di Fantômas e Les Vampires), stessa misteriosa presenza dei soggetti, che hanno quei volti sinistri e quelle espressioni quasi sardoniche. Ci ho visto giusto? Cosa vi ha spinto a girarlo? Avete creato una colonna sonora ad hoc?
Il film è liberamente ispirato alle teorie sul cinema, ed in particolare ad alcuni soggetti scritti negli anni Venti e mai realizzati di Antonin Artaud, che è stato uno dei grandi protagonisti del primo cinema. È girato quasi completamente in notturna e sì, in maniera quasi clandestina, in modo da evitare il più possibile la presenza umana. Ogni sessione di ripresa, che poteva durare anche un’intera notte, era realizzata come un blitz situazionista, un’azione performativa, e anche in questo caso la preparazione psico-fisica era predeterminata. La colonna sonora è composta di registrazioni inedite del 2003 associate al film in modo casuale, in modo da ricreare quella magia sincronica che solo il caos può liberare.
So che avete anche dei “lavori ufficiali”, dovete insomma portare la pagnotta a casa, ma non vi fermate mai e cercate di fare proposte culturali dalle vostre parti. Potete dirmi, preciso che non sono mai stato in Sardegna, ahimè, che tipo di riscontri avete avuto? Alludo chiaramente al vostro circolo culturale. Insomma io credo che la Sardegna non sia solo la patria dei turisti che la popolano durante le vacanze, penso a certi festival anche molto diversi tra loro come quello di Sant’Anna Arresi (Ai Confini Tra Sardegna E Jazz), Here I Stay Festival, Signal Festival, non dimenticando un artista importante come Simon Balestrazzi (vostro sodale peraltro), che opera nell’isola da tempo ormai.
Purtroppo il Circolo non ha avuto fortuna e abbiamo chiuso. Il tutto si reggeva economicamente sulle nostre gambe, e non avendo mai avuto nessun aiuto dalle istituzioni alla fine è diventato insostenibile. Ne stiamo ancora pagando le conseguenze. Gli altri festival che hai menzionato si sostengono, non senza difficoltà, ma con finanziamenti pubblici. Noi abbiamo organizzato nel nostro territorio centinaia di eventi con artisti nazionali ed internazionali sempre auto-finanziandoci. Il Circolo doveva essere uno strumento per abbattere i costi ma invece li ha moltiplicati. La Sardegna ed il nostro territorio in particolare, l’interno dell’Isola, ha molto da offrire, ma la cecità dei nostri amministratori è proverbiale e non può esplodere nel pieno delle sue potenzialità. Siamo fieri che uno come Simon Balestrazzi sia ancora qui con noi a combattere, nonostante tanti ostacoli. In molti casi abbiamo avuto ottimi riscontri, dimostrando che si può fare molto con poco. Al momento abbiamo le ossa rotte ma non siamo ancora morti, e stiamo pensando a delle iniziative di sensibilizzazione pubblica, per cui a breve potremmo avere il bisogno di tutti. Stay tuned!
Avete intenzione di proseguire come HBOL? Avete altri progetti in cantiere?
Appena avremo le risorse necessarie metteremo su supporto fisico il nuovo materiale, che stiamo eseguendo dal vivo con la formazione attuale. Contiamo di far uscire anche l’ultimo capitolo di Ethnographies attualmente ancora inedito. A fine gennaio faremo qualche data in Inghilterra. Per quanto riguarda Trasponsonic usciranno il nuovo MsMiroslaw in solo, ed un altro in duo con Laura Dem. Grazie del supporto. A presto.
Discografia
Umungus Fungus (2007)
Urano 1 (2008)
Urano 3 (2008)
Saint Lux (2009)
Ethnographies Vol. I – Musèe De L’Homme Hermètique (2010)
Ethnographies Vol. II – Musèe De L’Homme Hermètique (2012)