The freewheelin’ Demented – intervista a Stefano Sarina Di Trapani da Torpignattara
Partito come un innocuo scambio di battute via chat e diventato ben presto un fitto rimpallo di domande e risposte, quello che state per leggere è (anche) un lucido resoconto di quanto accaduto negli ultimi anni in alcuni famosi/famigerati quartieri romani in ambito di musiche storte e weirdismi assortiti. A fornircelo in esclusiva è uno fra i protagonisti più attivi di quella scena, o meglio, di quelle scene – fittizie, reali o come pare a voi – nate, morte e risorte fra la Casilina vecchia, Torpignattara, Torrevecchia, il Pigneto e altra esotica topografia capitolina.
Inizierei parlando di musica contemporanea italiana. Sto guardando a pezzi la seconda serata del Festival di Sanremo. Il carrozzone è più o meno identico a quello degli anni scorsi: finto sfarzo nazionalpopolare, umorismo da bocciofila, cantanti bollitissimi, orchestre immense, finti ex-indialternativi. Al di là di facili e consumate mitologie trash, cosa è successo, se qualcosa è successo, alla musica pop(olare) italiana fra 1982, anno in cui la sigla di Sanremo era “Che Fico”, cantata da un Pippo Franco in versione teddy boy borgataro, e l’ avvento recentissimo di Sua Faziosità?
Stefano Di Trapani: È successo semplicemente che i tempi sono cambiati. Sanremo è lo specchio dell’italiano medio, e l’italiano medio non è più curioso, non è infelice e neanche ride. Vive di piattume e se ha delle schicchere, sono dovute al consumo di cocaina. Non è che sia negativo, semplicemente è quello che è successo. Il trash di base non esiste, è quello che non è comprensibile che diventa trash per l’italiano-massa. Non riesce a distinguere la merda dalla terra fertile. Sanremo è sempre stata una vetrina commerciale, non il termometro della musica italiana: Pippo Franco vestito da punk era considerato un divertente cretino, mentre lui stava interpretando i tempi senza morale alcuna. Poi, a posteriori, la cosa è diventata iconica: decontestualizzata, qualsiasi stronzata diventa un capolavoro. Per cui penso che anche il Sanremo odierno, nel futuro, ci darà delle soddisfazioni. Per ora è solo una tensione verso la merda, perché per arrivare davvero alla merda ci vuole almeno una spinta al cattivo gusto.
Musicalmente ti ho conosciuto con i lavori di Trapcoustic. Con System Hardware Abnormal si va da tutt’altra parte. Come nasce il progetto?
Beh, viene da molto lontano, circa 2002… prima mi chiamavo semplicemente Urania e facevo dell’elettronica “lesseriana”, anche un po’ alla Merzbow, però a mio parere più “melodica”. A un certo punto mi sono letteralmente trasformato in System Hardware, come reazione a un momento particolarmente stressante della mia vita, portando l’accento più su qualcosa di molesto. Uso della tecnologia il più possibile rotta, o per creare cortocircuiti. Mi sembra oggigiorno uno dei modi più sensati per suonare l’elettronica.
Cosa prima di System Hardware Abnormal e Urania? Come sei finito insomma a trafficare con i suoni?
Praticamente smanetto con la musica da quando avevo nove anni. Mio padre è un ex chitarrista, suonava con il primo gruppo beat di Sabaudia, gli Arcadi. A lui piaceva fare home recording, in maniera anche molto primitiva: io gli rubavo le cose mentre era al lavoro e registravo i miei pezzi, che talvolta sfioravano la cacofonia. Mi piaceva questa cosa della distorsione nel rock, tutte quelle storie che escono fuori dalla chitarra elettrica quando suona senza manco toccarla. Poi, dopo una serie di band che esistevano più nella mia testa che nella realtà, negli anni Novanta ho vissuto in pieno la scena di Latina, come basso e voce negli Shokogaz, e abbiamo lasciato tre album ancora in giro per la rete. Un miscuglio di post-punk, noise e elettronica. Nel frattempo io smanettavo con l’Atari e i primi software musicali per i cavoli miei, e suonavo acid jazz nei locali con gli Union Art Funk, per alzare due lire. Qualcuno se li ricorderà perché c’era gente dei Cyclone e della Snob Prod.
L’attitudine alla registrazione casalinga è rimasta, anzi mi sembra sia diventata un marchio riconoscibile nei tuoi lavori…
Sì, penso che la registrazione più vera sia questa: fatta con mezzi di fortuna. Qualsiasi cosa usi ha la sua poetica, il suo vissuto e dunque quando presti orecchio devi infilarti in un immaginario che essa suggerisce.
Necessità? Virtù? O una dall’altra?
Prima di tutto è un’attitudine, appunto ereditata da quando ero bambino. Molte volte rimanevo affascinato da suoni cupi, magari che uscivano da casse rotte. Ma io non sapevo che lo fossero, rotte. Ecco, una cosa suona male quando applichi un giudizio estetico a priori. Poi magari arriva Brian Eno e ti inventa la discreet, basata su un difetto di ascolto, e improvvisamente tutti si sintonizzano su ‘sta storia e comprendono dove vuole arrivare. Non dico che l’hi fi mi fa schifo, però un po’ lo odio, credo abbia mietuto più di una vittima. Ad ogni modo non escluderei il suo utilizzo, se avessi a disposizione macchinari adeguati. Il problema è che oggi come oggi è difficile permetterseli. Però di sicuro non mi viene naturale.
Mi viene da pensare a James Ferraro. Intendo il passaggio Skaters vs le ultime cose a suo nome…
Beh, Ferraro, più che passare all’hi fi, è passato a una mezza paraculata. A me alcuni dischi del dopo Skaters piacciono, ma ultimamente mi pare che stia facendo della retroguardia inaspettatamente sostenuta dalla stampa, che forse non conosce bene le esperienze di metà anni Ottanta. L’ultima volta che l’ho visto dal vivo a Roma sembrava venuto per fare una vacanza in Italia più che per suonare.
Ci vorrebbero più dischi “di merda”, nel senso buono del termine: cioè pionieristici, coraggiosi. Anche pastrocchi, basta che cerchino di andare in qualche posto inesistente che magari un giorno verrà raggiunto da tutti. Guarda Sun Ra, una volta considerato un mezzo pagliaccio e ora nel gotha dei numi tutelari di sempre. Dico lui come esempio di una musica e di un’attitudine che non ha mode né età, perché estremamente personale e inedita. Inimitabile, diciamo.
Sull’esperienza di Ferraro in Italia lo scorso autunno, totalmente d’accordo. Non ho ben capito dove volesse andare a parare. Forse anche lui cerca di ‘andare in qualche posto inesistente che magari un giorno verrà raggiunto da tutti’. Boh, ce lo faremo spiegare da The Wire…
Ah beh, può anche essere. Però se mi fai la fotocopia degli Art Of Noise, ma svagata, non credo che tu possa andare tanto lontano. Poi per quanto è incensato diciamo che ha già raccolto. Nel futuro probabilmente saranno i comprimari di questo teatrino chiamato showbiz a dettare legge, quelli che oggi stanno nell’angolino.
Torniamo ai tuoi progetti: I Contro. I ben informati parlano di ‘hard-core sinfonico’, tu che mi dici?
In un certo senso è così, io sono il direttore d’orchestra e loro l’orchestra, però virata in campo hardcore/black/grind e via dicendo. Interagiamo come se fossimo al teatro dell’opera di Roma, in un prossimo futuro dove al posto dell’Aida si mette in scena The Process of Wedding Out dei Black Flag. La cosa più vicina a quello che facciamo, se devo trovare un punto di contatto, sono gli Anal Cunt, forse. Quindi un misto di ironia e di reale rodimento di chiccherone. C’è chi crede di avere a che fare con una parodia dell’essere hc, in realtà i Contro pensano che sia l’hc odierno ad essere spesso una parodia di se stesso, nelle tematiche quanto nelle lagne, quindi semmai è una parodia della parodia… in poche parole una cartina da tornasole. Ci siamo formati da un’idea per un cortometraggio mai uscito, ispirandoci ai Monkees (in un contesto punk, però), poi abbiamo capito che facevamo cosa a sé.
In questa formazione milita gente che in qualche modo è “storica” nelle peripezie underground di Roma, basti pensare a Toni Franz, il cantante, che in questo caso si chiama Diffidato: una vera leggenda che non ha bisogno di presentazioni.
Dando una sbirciata alla scaletta di un vostro concerto con I Contro di qualche mese fa al Dal Verme leggo che avete chiuso con un ‘Omaggio a Freak Antoni’…
Sì, era doveroso farlo. Alla fine i Contro hanno un’attitudine vicina agli Skiantos, anche se non ci ispiriamo affatto a loro. Ci è dispiaciuto molto sapere della morte improvvisa di Freak Antoni, perché brani come “Sono Buono” oppure ” Io Sono Un Autonomo” dovrebbero essere considerati patrimonio dell’umanità. Tra l’altro gli Skiantos scrissero un pezzo chiamato “Sono Contro”, per cui era necessario sottolineare che fra noi e Freak c’è un immaginario punto di contatto. Tra l’altro subito dopo ho curato un evento a lui dedicato all’interno del Road to Ruins festival a Roma.
Rimanendo sempre in zona Dal Verme e quartiere Pigneto, da qualche anno sei fra i promotori e organizzatori del BABA Festival di arti eccentriche e culture esplose. Come nasce l’idea?
Beh, io sono nato a Torrevecchia e uno dei simboli di quel quartiere – per me – è l’ex manicomio di Santa Maria della Pietà. Un posto davvero assurdo che trasuda un vissuto al limite, fra il terrore e l’estasi, un parco enorme di una suggestione totalizzante. Nel 1997 iniziava la fase di smantellamento e facevo parte del collettivo per la riqualificazione: la mia idea era di fare un festival che riassumesse un po’ il paradosso della follia, riportando quest’ultima al giusto posto, cioè nella vita quotidiana, come qualcosa di inevitabile, anche perché laggiù vivevano moltissimi pittori art brut. Non ci riuscii, ma l’idea non la accantonai. Nel 2008, la scossa decisiva: dopo aver fatto tesoro del Dramarama, un festival in Belgio purtroppo oramai defunto, finalmente decido di renderla viva con il socio fondatore Grip Casino (che più tardi, dopo quattro edizioni, mollerà) e l’aiuto di Eva Won, Valerio Mattioli e Massimiliano Bomba, anche loro dell’idea di collegare la tradizione art brut del posto con l’outsider music.: il BABA per me è qualcosa di unico, nato da pochi è poi diventato una partecipazione collettiva, quasi un rito esorcista. Ci siamo resi conto che poi molti dei nostri parenti sono finiti internati laggiù, oppure hanno subito elettroshock in quei padiglioni. Purtroppo però siamo riusciti a tirare su solo due edizioni all’ex manicomio, a causa di divergenze con la lavanderia occupata che ci cedeva gli spazi. Per cui da quel momento la follia si è riversata nei locali e in altre location, come è giusto che sia: siamo alla sesta edizione e abbiamo ospitato gente del calibro di Adam Bohman, Phil Minton, Passenger Of Shit e moltissimi italiani, che non hanno nulla da invidiare a nessuno se non a chi prova invidia di per sé.
Sempre a proposito di outsider music e weirdness assortite da Roma Est, qualche tempo fa, intervistando Toni Cutrone venne fuori, in modo quasi “obbligato”, la compilation “Borgata Boredom (Music And Noises From Roma Est)”, pubblicata nel 2011 dalla No=Fi Records dello stesso Toni. Si è fatto un gran parlare di quel disco, alcuni lo considerano una sorta di manifesto, altri una semplice istantanea. Poi le solite diatribe su chi doveva starci o, se preferisci, su chi ne è rimasto fuori. Qual è il tuo punto di vista in proposito?
Sì, dici bene. Roma Est è un posto florido per certe tematiche “storte”. Il Baba tentava di portare tutto a Nordovest, ma non c’è abbastanza terreno di coltura: là si è ancora legati a un discorso politico vecchio stile, che talvolta sfocia nell’obsolescenza pura. Io credo che l’operazione Borgata Boredom sia stata da molti travisata: c’è chi pensa ancora si tratti di una cosa creata ad hoc dai giornalisti e nella fattispecie da Valerio Mattioli degli Heroin In Tahiti. Ebbene così non è, a lui fu solo chiesto (se non erro) di scrivere di questa scena che esisteva e esiste tuttora: si inventò un titolo all’articolo e poi mise su una compilation online per far capire cosa succedeva. Ed era tutta musica non sempre registrata apposta per l’occasione, quanto più spesso già edita anche e soprattutto su supporti esteri. A quel punto Cutrone ha pensato che una compilation in vinile avrebbe ufficializzato di più la cosa, come dire “siamo qui, esistiamo e lo gridiamo a gran voce”. Io penso che – non essendoci un manifesto scritto – si tratti più di un’istantanea che poi diventa motu proprio manifesto. È stata un’operazione che ci ha sicuramente dato molta visibilità, ma nello stesso tempo è stata un’arma a doppio taglio, perché quando storicizzi una scena molto spesso non te lo perdonano. Quindi appena fai una cosa, te la associano subito a Borgata Boredom anche se non è necessario sottolinearlo e talvolta non c’entra neanche un cazzo. Comunque, visibilità o meno, non è cambiato ovviamente nulla nelle nostre vite, ci sbattiamo allora e ci sbattiamo oggi… pure di più, vista la drammatica situazione culturale italiana. Riguardo a chi non è entrato nella compilation, beh, è normale, non puoi mettere settanta band in 60 minuti. Molti di quelli che hanno sputato sopra a Borgata Boredom era gente che invitavamo a suonare, ma che alla fine pensava solo ai cazzi suoi, era snob e talvolta aveva seri problemi relazionali. Però, invece di cercare di risolverli, stavano lì a rompere le palle a noi dandoci un ruolo che non abbiamo mai avuto, cioè quello dei venduti… Venduti a chi? Chi si vende riceve in cambio del denaro, che non mi pare noi abbiamo mai visto. Erano solo dei rosiconi, tanto che qualcuno si è anche scusato a posteriori. Poi ci sono quelli della vecchia guardia, che all’inizio ci hanno guardato con sospetto nonostante fossimo attivi da anni. Addirittura c’è chi si faceva vanto di non fare parte del giro, non capendo che Borgata Boredom nasce in un contesto di condivisione spontanea di idee e quindi non si riferisce a un punto cardinale della città tout court, ma solo alla zona in cui viviamo e operiamo. Quando ci hanno conosciuto meglio e hanno capito che forse potevano rilassarsi, sono stati felicissimi di lavorare con noi. Infatti, quando qualcuno mi dice che la scena si è sgonfiata (certe volte capita anche ai protagonisti, forse confondendo il malessere personale con la realtà), io invito la gente ad andare ai concerti, alle manifestazioni tipo appunto il Baba, o Thalassa o Roma La Drona. Ci sono nuove band e nuove leve che potrebbero completare un intero vinile di Borgata Boredom 2. Per non parlare-appunto- dei gemellaggi con artisti di altre zone di Roma, che condividono assieme a noi le esperienze e che hanno giocoforza allargato tutto. Non è mai stato un laboratorio chiuso, anzi: sicuramente però per aprirlo è necessario che chi è alla porta ci piaccia. A molti questo non sarà andato giù, ma è così che funziona: figurarsi che anche fra di noi spesso si discute e abbiamo punti di vista differenti, ma convergiamo sul fatto che ognuno di noi è una risorsa. Insomma, per farla breve siamo più vivi che mai e ci stiamo evolvendo, fino – si spera – al passaggio di testimone alle nuove leve.
A proposito, qualche nome che terresti a segnalarci?
Sicuramente gli Aktion, è appena uscito un loro disco per la Hate Records e fanno una roba fra la minimal wave e Gainsbourg, poi i Rainbow Island, i Nastro. Il resto, appunto, va scoperto sul campo, questi sono solo un paio di esempi. Ah giusto, anche Calcutta, che ora si è spostato a Roma Est pure lui.
Trapcoustic. Quando e come nasce il progetto?
Nel 2003 ho avuto un brutto momento personale, sono uscito fuori di testa. Depressione maggiore dovuta ad una serie di stress, lutti… e alla fine ho fatto il botto. Ero convinto di non riuscire più a suonare nulla, a sentire nulla. Mi sforzavo di fare musica aggrappandomi al fatto che mi faceva vivere, come appendersi a una corda per non cadere in mare. Quindi ho ripreso in mano la mia chitarra classica e ho provato a fare delle canzoni che rispecchiassero come mi sentivo. Nonostante la situazione, sono riuscito a registrare un po’ di pezzi che vennero più tardi pubblicati sull’etichetta di Federico Lupo, quelli della Zelle Art.
Per me è stato terapeutico all’inizio, e urgente. Senza secondi fini.
Quello che mi racconti sembra in qualche venire fuori ascoltando i pezzi di Trapcoustic. Intendo proprio a livello sonoro: tutto sembra coperto da una nebbia dalla quale però riesce ad emergere un canto intimo e melodioso.
Sì, perché avevo bisogno di capire se veramente ero diventato insensibile. Ho compreso che invece ero solo più fragile, un cristallo da riciclare. Le cose si sono fortunatamente sbloccate, ma ancora dentro di me c’è un trauma che riappare a momenti, diciamo che è il dolce trauma di vivere. Un vivere agrodolce.
Il suono per me è importantissimo. Descrive appunto quella sensazione di cotone nel cervello, oppure tutte quelle sensazioni metaforiche che si avvertono nelle crisi. Non vuol dire che la crisi sia negativa, ma è comunque un momento in cui non puoi fare finta di essere tutto di un pezzo, sei nudo nella tempesta. E quindi anche il suono è nudo e soggetto alle intemperie. Ecco perché riverberi e roba del genere. Mi piacerebbe fosse simile al cinema di Herzog.
Quando ci siamo visti, poco più di un mese fa, ti accennai a quanto avevo apprezzato la tua cover di “Junk” di Paul McCartney. Anche lui, quando scrisse quel brano, non si trovava in una situazione personale del tutto serena, anzi. L’hai scelta per qualche motivo in particolare?
Ah non lo sapevo. Io l’ho scelta perché la versione demo del White Album è meravigliosa. Paul si inventa le parole, biascica: suona tutto davvero di una leggerezza disarmante e mi piaceva molto anche prima di fare le cose come Trapcoustic. Qual era questa situazione personale?
Per quello che so, c’era rimasto piuttosto male dopo aver saputo delle tendenze non proprio ascetiche del Maharishi, e anche con i Beatles le cose iniziavano a prendere una brutta piega…
Ah ok, ricordo la situazione. Beh, si sente che c’è qualche problema, ma alla fine tutto il White album è così. Ha una strana tensione anche nei pezzi apparentemente più spensierati.
Sono d’accordo. Credo che il White Album sia il punto della loro carriera in cui si iniziano ad intravedere le vie di fuga possibili…
Sì, e poi è praticamente un disco scritto dallo spirito di Brian Epstein. Per questo sembra di sentire suonare degli spettri.
Per chiudere il discorso Trapcoustic, cosa hai programma dopo Innerlands?
Bella domanda: il disco nuovo è già pronto e pensiamo di farlo uscire per la fine del 2014. Per ora posso dire che sarà diverso dagli altri: più secco, più “hi fi” (per quanto per me la parola “hi fi” sia molto soggettiva) e soprattutto con uno spirito atto a rovesciare la supremazia della nebbia sonora per la trasparenza di un fiume, non per questo meno profondo, ma anzi, con maggiori vortici. Anche i live saranno diversi, ma su questo preferisco aspettare a fare dichiarazioni…
Sono molto curioso. Passiamo ad altri progetti musicali di cui sei promotore, protagonista o componente. Da poco si è svolto a Roma il Thalassa Festival, tu hai suonato durante la prima delle tre serate con il progetto Creapopolvsqve. Cito testualmente: “… un duo che affronta senza nessuna riverenza diverse forme musicali, incastonando rumori e melodie tradizionali in un unico continuum ispirato alle antiche regole dell’amore, non senza ironia…”. Mi faresti capire meglio?
Beh, questo estratto che citi non l’ho scritto io, ma in effetti è una sorta di psichedelia dark witch house e con suoni e campioni presi dalla canzone italiana e soprattutto da quella partenopea. La sceneggiata, la passione, insomma tutte queste cose che possono portare ai delitti passionali, mischiate a un immaginario tipo “Satyricon” di Fellini, pornografico in senso rituale, vicino ai film di Zebedy Colt. L’ironia serve a non prendersi troppo sul serio e a rovesciare dei simboli per farli diventare altro. Ad esempio… che so… campioniamo Ambra e la facciamo diventare una marcia verso l’altare del sacrificio sessuale. Cose del genere. Si gioca coi tabù musicali così come coi tabù del concept, che sono inevitabili. Siamo io e Mushy, per inciso: ci conosciamo da un bel po’ di tempo e stiamo in fissa per le zozzate, non poteva che venire fuori tutto questo.
E l’Italian Occult Psychedelia dove la mettiamo?
Appunto: noi siamo italiani per i campioni che usiamo, occult per la tematica e psichedelici nel mescolare queste due cose. Calcola che poi siamo attivi da parecchi anni prima che scoppiasse questo trend, per cui…. Se mi chiedi un parere sulla cosa, io credo che sia un etichetta per mettere dentro delle musiche che hanno in comune una certa patina scura e dilatata, e giocoforza per venderle. Però penso che metà dei gruppi coinvolti non abbiano interesse per l’occultismo in sé, piuttosto per un suono che lo evochi. Un po’ come quando i bambini hanno paura del buio e cantano le filastrocche per cacciarlo via. Ci sono buone cose, però c’è anche il rischio che i gruppi coinvolti rimangano musicalmente intrappolati dall’etichetta che hanno appiccicata sopra. D’altro canto, è ancora molto fumosa come storia: staremo a vedere.
Tempo fa mi accennavi ad un tuo nuovo progetto di poesia sonora. Potresti spiegarmi meglio di cosa si tratta?
È un progetto non nuovissimo, vede la luce nel 2008, con la mia compagna, la poetessa albanese Jonida Prifti. Prima di stare insieme condividevamo questa cosa, ed è praticamente un tentativo di riprendere in mano gli esperimenti vocali degli anni ‘70/’80 in un contesto moderno che conosce la lezione dei Whitehouse, dell’hip hop e soprattutto del nuovo significato che ha la parola in quanto tale. Ti modifica ma puoi modificarla, falsarla, dargli diverse chiavi di lettura, molto più oggi che allora. Quindi mandiamo in feedback la voce con l’assetto elettronico, facendo in modo che le due cose lottino a vicenda. Insomma come quando si fa una seduta spiritica con l’ouija board , che poi è il nostro concept. Il linguaggio non è di questo mondo: quando ti sembra codificabile è il momento che ti sta fregando, e infatti noi scriviamo in italo-albanese ma anche in pidgin, proprio per non dare per scontata questa cosa. Siamo particolarmente attivi: l’anno scorso ad esempio siamo stati invitati al festival Colour Out Of Space, a Brighton, e stiamo lavorando su vari fronti, ad esempio sonorizzazioni poetiche, videopoesia, nastri, vinili e uscite digitali di cui una appena uscita su Selvaelettrica, e organizziamo annualmente il festival di poesia sonora ‘poesia carnosa’, stavolta in collaborazione con l’etichetta inglese My Dance The Skull. È forse uno dei progetti in cui mi sento più libero.
Visto che lo spazio a nostra disposizione non è infinito, e i progetti nei quali sei direttamente coinvolto sono davvero tanti, volevo chiederti di farmi una lista che in poche tappe illustri il tuo pensiero musicale. Una guida introduttiva alle tue produzioni recenti o passate che per vari motivi ritieni particolarmente importanti.
È una domanda molto difficile, tanto che anche io a volte vorrei saperlo e perdo il conto delle cose che faccio. Se non ho nominato i Maximillian I, rimedio ora: sono fra quelli a cui tengo di più e porto avanti in mezzo a notevoli difficoltà logistiche. Stiamo finendo il nuovo disco ed è un parto: vorremmo de-evolvere il nostro noise-rock, lavorando verso qualcosa di informe che non capiamo neanche noi. Altri progetti li tengo segreti per motivi religiosi, ma li si scova facilmente, basta fare attenzione alle mie mosse o guardare sul blog Nuovasarin, attualmente in stand-by mediatico. Ad esempio ultimamente è uscita la nuova tape dei Cadeo su NO=FI e ve la consiglio caldamente… anche se non so chi siano… Però preferisco citare i progetti che per vari motivi sono stati meno visibili. Ad esempio Le Tazze, un duo che ho con Luca Tanzini dei Trans Upper Egypt e con cui facciamo psichedelia elettronica e demente, come se i Gong si accoppiassero con i Reynols. Oppure i Magici, una ‘one-stand band’ che suona e registra solo quando Ranus B (l’ ex batterista dei Last Wanks) fa mostre. Siamo io e Calcutta, il giovane cantautore pontino, e ci diamo a una specie di vapor wave più tendente alla new age fantasy che non saprei ben definire, suonata solo con sintetizzatori anni Novanta. Oppure gli Epilepsyovlov, band di samba /etno/minimal wave nati dalle ceneri Pan Faelk, un gruppo che è purtroppo durato lo spazio di un singolo. Fra le cose future che vorrei riprendere ci sono i Tandoorello (con Toni Cutrone), che secondo me sono il gruppo sbagliato al momento giusto, e gli OXO, che è un collettivo di performance tra il pop e l’estremo e che è particolarmente importante per i miei esperimenti. Mi piacerebbe che uscisse il nuovo album degli Hiroshima Rocks Around, gruppo con il quale ho girato di più dal vivo e che potrebbe ancora dare molto, ma anche questa situazione è problematica. Altre mille cose sono in cantiere: dato che allo stato attuale non esiste un vero mercato musicale (checché se ne dica), non ho problemi a saturarlo e posso esprimermi come meglio credo. D’altronde è tutto come un mandala: bisogna saper fare, finire, distruggere e ripartire senza aspettarsi alcunché.