Senz’appoggio alcuno: B/B/S/
– Trevor, is someone chasing you?
– Not yet. But they will when they find out who I am.
Baker, Belfi, Skodvin. A Berlino, due anni fa, comincia la collaborazione tra il chitarrista canadese (Nadja e mille altri progetti, solisti e non), il poliedrico batterista italiano (oggi anche con Carla Bozulich) e il norvegese dietro all’etichetta Miasmah, pure lui “ambient guitarist” in Svarte Greiner e metà dei Deaf Center, due dei primi colpi di casa Type Records.
B/B/S/ si basa sull’improvvisazione, che si traduce in paesaggi sonori notturni, scabri ma allo stesso tempo eleganti. Se partiamo – un po’ ingannati dalla presentazione della Miasmah – dalla galassia drone metal, possiamo andare col pensiero a Ensemble Pearl, Æthenor, Locrian e altri, ma questo trio non è mai davvero “doom”, non importa che ci sia Baker, al quale in effetti non è difficile attribuire certi suoni più spessi che sentiamo. Se però vogliamo prendere questi tre gruppi come paragone, sfruttando il fatto che in tutti i casi c’è il tentativo di unire percussioni e drone/ambient, è il caso di dire che forse – rispetto all’esperimento non sempre riuscito degli Æthenor (e penso anche ai Gravetemple) – siamo di fronte al gruppo in cui il batterista più s’intende ed entra in simbiosi con gli altri musicisti. Belfi, a volte avvicinandosi persino alla musica concreta, tesse una tela, crea uno sfondo, in questo trovando un rivale solo in Steven Hess (Locrian e Ural Umbo), ma è al contempo capace di generare movimento quando gli altri due si fanno più intensi e pericolosi, senza però mai deragliare in solipsismi senza senso. Per capire, bisogna ascoltare “Brick”, prima traccia dell’album d’esordio Brick Mask, uscito solo un anno fa: buio, neve, lenti passi, poi riverberi di chitarra che cominciano a serpeggiare come raggi di luce riflessi dal ghiaccio e qui scatta Belfi, come qualcosa di sconosciuto che ci corre intorno e ci rincorre, sfiorandoci senza però aggredirci, scomparendo all’improvviso prima che un suono di chitarra molto basso (Baker?) favorisca un cambio di scenario. Sono solo pochi minuti, però memorabili.
– Stevie, I haven’t slept in a year.
– Jesus Christ!
– I tried him too.
Non è così facile, insomma, trovare una nicchia per questi signori. Un ep come Half Moon, nato dalle stesse sessioni di Brick Mask, mostra un volto diverso, ma integrato, di B/B/S/. È un vagare quasi da sonnambuli, a metà strada tra realtà e allucinazione, come Bale in “The Machinist”, come Pacino in “Insomnia”. Nuovamente Baker e Skodvin sono abili a trasformare in spettri i suoni estesi delle loro chitarre, mentre Belfi si produce talvolta in asperità avvicinabili a quelle che si sentono su etichette come Setola Di Maiale o dalla scena impro napoletana. O è a Z’EV che bisognerebbe guardare?
Se l’improvvisazione è la chiave, ecco che inevitabile giunge la registrazione live, solo a un anno di distanza dal debutto. I tre vanno molto in giro, del resto, cosa che lascia sperare che B/B/S/ abbia una vita lunga in quest’epoca molto dispersiva. Scenario di Coltre/Manto è la Christuskirche di Bochum, dove i tre iniziano con – si presume – Skodvin che passa un archetto sulla sua chitarra, Belfi che pesta secco e minaccioso e Baker che accenna a un ruggito nadjesco, ma il sangue, con loro, non si vede mai. È più la suggestione che qualcosa di terribile possa accadere lì, in quella distesa senza esseri umani dove loro ci hanno messo, rappresentandola anche in copertina, e da qui i riferimenti di Belfi agli aspetti “cinematici” della musica del gruppo. Un plauso in questo caso va a Dimitri della Midira Records, che ha organizzato il concerto e non ha esitato a proporre ai tre di trasformarlo nel vinile di Coltre/Manto, a solo pochi mesi di distanza dalle due uscite Miasmah.
A little guilt goes a long way.
In questi anni si è visto come si sia creata una nuova saldatura tra il mondo della musica pesante ed estrema e quello più sperimentale ed avanguardia. Non era semplice immaginare, ad esempio, che un giorno Peter Rehberg avrebbe collaborato con uno dei Burning Witch e il batterista di una band giapponese che porta il nome di un pezzo dei Melvins. Questa fusione ormai ha prodotto sia dischi pesantissimi e neri, sia uscite più levigate e sottili. Quando – in certi contesti – si perde quel non so che di malato è sempre un rischio, ma – si sa – non a tutti piace rifugiarsi nelle proprie sicurezze. D’altra parte, raffinazione molto spesso vuol dire perdita di mordente (penso alle mie perplessità su Ensemble Pearl). Con Baker, Belfi e Skodvin si trova un punto di equilibrio: la gravità, nei loro dischi, non è quella di Giove, ma classe, inventiva e capacità di infondere personalità a musiche con una forma indefinita sono le loro armi in più.