RASHAD BECKER, 1/10/2016
Staranzano, Dobialab.
È un’autentica primizia quella che i ragazzi di Dobialab ci danno occasione di saggiare stasera dal vivo nel loro centro a Staranzano (GO): Rashad Becker, l’ingegnere del suono tedesco la cui firma è diventata negli anni sinonimo di garanzia per tutto l’arcipelago delle musiche elettroniche con forti inclinazioni sperimentali. Se date un’occhiata ai dischi più chiacchierati in questi ambiti scoprirete che il suo nome ritorna sempre, soprattutto nei “cut” dei vinili, ai quali riesce a infondere dei sub che in fatto di intensità non temono confronti. L’unico disco a portare la sua firma è uscito tre anni fa per la tedesca PAN (Traditional Music Of Notional Species Vol 1) ed è un oggetto non identificato, invisibile ai radar dei generi, anche quelli che passano a pettine le definizioni più minute spaccando il capello in due. Come un quadro non figurativo o un libro privo di trama, il suono in quel lavoro si adultera e sfugge dall’inizio alla fine, sottraendosi al controllo razionale e rendendo la condivisione degli stessi spazi da parte di spigolosità e intimismo una faccenda tutt’altro che impossibile. Ascoltata con una certa predisposizione è una musica che appare splendida e intrigante come poche cose.
Veniamo ai concerti, impreziositi per l’occasione dai visuals del collettivo Hybrida. In apertura c’è il duo //Slum. Synth, computer, samples. Partenza in sordina con fluttuanti non-movimenti che sanno di sci-fi passata attraverso filtri granulosi. Interviene il ritmo, gli spazi si aprono all’ampiezza dei bassi e il saliscendi ha inizio. La liturgia del viaggio nello spazio interiore è piacevole, fluida, anche se un tantino asciutta/schematica. La voglia di fare bene comunque c’è tutta. Sono sicuro che i dettagli elettrizzanti nel giostrarsi le varie suggestioni e attese arriveranno con l’esperienza.
Finisce l’esibizione, la sala si svuota. Fumo una veloce sigaretta all’esterno e occupo la posizione davanti al set-up di macchine che tra poco si animerà sotto le mani di Becker. Tutto è in mutazione fin dai primi istanti e la sensazione è quella di essere catapultati in un mondo pre-logico. I suoni escono fuori con un’indole sgangherata e ludica scegliendosi autonomamente la propria traiettoria. Presi e rilanciati da una mano invisibile ballonzolano nello spazio come molle di un giocattolo rotto. Tutto questo senza che mai si vada a delineare un canovaccio che li contenga in maniera definitiva. C’è una percentuale di attimi, istinti, volontà di avvicinarsi senza precauzioni. E ce n’è un’altra fatta di buddhità e figure che si allontanano inesorabilmente in un cannocchiale rovesciato, mentre le informazioni saettano lungo le fibre ottiche e rimbalzano da un satellite all’altro. Il suono come mezzo per indagare gli anfratti della mente è per Becker una questione di superfici che scivolano in profondità e gesti che disturbano la costanza nel fluire delle forme. Un piacere in gran stile al quale non ti senti di associare niente, perché a niente è associabile con aderenza.
L’ultimo ad esibirsi è Glue, fautore di un’elettronica analogica ad alto tasso di intrattenimento, sferica, ma per nulla fossilizzata sulla formuletta. Visto il numero dei presenti e l’atmosfera, la serata non può che dirsi riuscita.