OREN AMBARCHI & JIM O’ROURKE, Behold
Mi è capitato di ospitare Oren Ambarchi nel 2009 in occasione di un day-off trasformato in una data romana al Sinister Noise, era di ritorno da un tour insieme a Stephen O’Malley e da un soggiorno in Giappone dal caro amico Jim O’Rourke. Aveva dietro un disco inedito che avevano registrato insieme e me lo fece ascoltare. Probabilmente si trattava di una versione non definitiva di Tima Formosa, ma quando ho sentito per la prima volta Behold la memoria ha iniziato a prendersi gioco di me e mi ha convinta che io quel disco lo conoscevo già. Sono andata a controllare su Discogs e lui sostiene che i miei ricordi siano un po’ confusi (le registrazioni risalgono al biennio 2012-2013). Delusa, oltre a preoccuparmi per l’invecchiamento precoce delle mie cellule cerebrali, ho iniziato a incolpare O’Rourke e Ambarchi, perché Behold a un primo ascolto sembra uno di quei dischi innocui, la classica uscita “minore” dell’artista geniale e prolifico, ma in breve tempo ha una capacità di affascinarti e stamparsi in testa vicina a quella dei ritornelli leggeri ma macchinosi del pop più sofisticato da supermercato. Intendiamoci: questo disco non è assolutamente da ascrivere a quella categoria ma, come molte opere ambientate nella Tokyo contemporanea, ha un’atmosfera luminescente e solitaria, solare ed enigmatica, e nelle mani di O’Rourke dischiude lentamente qualcosa di davvero originale e prezioso. E infatti Behold ci risveglia in pieno jet lag, a vagare tra attrazioni urbane e rurali in continua trasfigurazione, che si giovano dei percorsi individuali intrapresi dai due negli ultimi dieci anni. La scrittura paracameristica di O’Rourke è ancora una volta al servizio di una contemporaneità che svicola da facili etichette (krautrock, ambient, elettroacustica) e anche se le geniali rielaborazioni bacharachiane sono qui messe da parte, ne rimane un’intenzione negli andamenti e nei crescendo. Ambarchi contribuisce con la compianta chitarra preparata e un uso della ritmica che si avvale del suo recente ritorno alla batteria.
La mancanza di un vero tema melodico non si fa sentire più di tanto, grazie all’uso di costruzioni microtonali raffinate e spurie, cinematiche come le fotografie di Shunichiro Okada, con lune al neon a illuminare palme e grattacieli e sopraelevate verde opalescente a sostituirsi alla natura con sfacciata grazia.
Due lunghe tracce in cui il senso di sospensione dell’Ambarchi che preferiamo gioca col (perdonate il parolone) riduzionismo massimalista di O’Rourke in una leggerezza nobilitata dalla post-produzione (piatti svolazzanti e filtratissimi, contrappunti subarmonici di casse fantasma, e via dicendo). Sul finale la batteria sfuma lentamente a scoprire architetture di synth, feedback di chitarra e note sparse di organo e pianoforte in un fluire acquatico perfettamente orchestrato. Rimane un’unica pulsazione a scandire un tempo che gareggia con quello naturale, riduzione fantasmagorica di moduli kraut e metafora dei cicli della vita in una città accelerata e indifferente.