NADJA, Dagdrøm
Nonostante qualcuno storca il naso di fronte alle troppe uscite, i Nadja in questi anni hanno tirato fuori dal cilindro alcuni album stupendi, su tutti Radiance Of Shadows, un disco con un suono di chitarra enorme che esce dallo stereo per bruciarti vivo. Pazzesca la collaborazione coi Pyramids, fragile e tristissima chiusura del 2009 in casa Hydra Head, e occorrerebbe aggiungere il lavoro del 2008 di Aidan Baker con un Tim Hecker in procinto di diventare famoso: in Fantasma Parastasie si fondevano due possibili ri-letture dello shoegaze. I Nadja, per intenderci, non sono Baker da solo, anche se la sua impronta è molto forte (Nadja è Aidan allo specchio): al basso c’è la sua compagna Leah Buckareff e per Dagdrøm c’è addirittura Mac McNeilly (Jesus Lizard) al posto della drum machine (è la seconda volta che il duo ospita un batterista vero nel disco, qui fatto arrivare alle orecchie molto più “live” rispetto alla prima: si parla del pur buono Desire In Uneasiness, uscito su Crucial Blast).
Il gruppo ha vissuto negli stessi anni di Jesu di Justin K Broadrick: questo è probabilmente il paragone più comodo per far capire a un amico se è il caso che si cerchi i dischi dei Nadja o no. La questione, in realtà, è più complicata: Baker, che nei suoi progetti personali piega la chitarra a suoni più ambientali, ha sempre ammesso di essere influenzato dai Godflesh, a loro volta collegati più o meno con evidenza ad altri gruppi che hanno formato il suo gusto, come certi Swans, i My Bloody Valentine (si parla di shoegaze-doom), i Neu! (l’insistenza sulle ripetizioni). A tutto questo andrebbero pure aggiunti i Cure della trilogia. I Nadja, alla fine della fiera, hanno una grana molto distinguibile da quella di Broadrick, vanno molto più sugli estremi opposti della disperazione e del sogno e sono capaci di infinite digressioni drone/ambient. Non qui, però, dove approfittano di McNeilly per realizzare il disco più diretto della loro vita, basta sentire come Baker “comprime” il suono della sua chitarra nell’iniziale “One Sense Alone”, uno dei loro pezzi migliori: pesante e incattivito, ma non solo. Tocca poi alla marea montante di “Falling Out Of Your Head”, che diventa un brano dei Nadja man mano che si aggiungono la distorsione e gli effetti, conservando – sempre grazie a una batteria incalzante – questa nuova dimensione più rock. La terza traccia, che dà il titolo all’album, comincia invece col suono pachidermico che ha fatto conoscere la band, ma c’è come una specie di ritornello melodico (sempre al rallentatore), che – guarda caso? – sembra somigliare un po’ a quelli che ogni tanto riuscivano alle band noise-rock fine Ottanta/inizio Novanta. Succede la stessa cosa in “Space Time & Absence”, insolita a causa dell’iniziale movimento circolare della batteria e disgraziatamente un po’ troppo tirata per le lunghe.
Disco da avere.
Da domani i Nadja suoneranno a Prato, a Roma, a Bologna, Ravenna, Torino e Milano. Vediamo se riusciamo a raccontarvi qualcosa anche del tour.