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JOHN GRANT, Pale Green Ghosts

Pale Green Ghosts

L’ex Czars ha ormai piantato i piedi e le idee nel mainstream pop, quello che non scorda d’essere originale, pur partendo da canovacci consolidati nel tempo. John Grant compie il salto di qualità – non senza una sfacciata dose di coraggio – e riesce a farmi sorbire queste perfette sad-songs imbevute d’elettronica, di spleen euforico e di flow da Studio 54: “Black Belt” starebbe comodamente in una raccolta di remix di Armand Van Helden (mi ricorda quello che ai tempi seviziò la splendida ugola asimmetrica di Tori Amos).

La virata, insomma, è di quelle che lasciano il segno, quindi non più solo canzoni splendidamente scritte e testi mai banali (figli di una studiata voglia di empatia e comprensione), ma ardimentose scale electro che ti catturano e non mollano più (il singolo e title-track è goduria pura coi suoi umori Depeche Mode). Il trademark di Grant resta dunque saldo, anche in virtù della cura di synth operata dal tipo dei Gus Gus in fase di produzione (i Gus Gus furono un collettivo islandese che ebbe un periodo di gloria nell’epoca d’oro di trip-hop & affini, lavorando all’ombra della prime mover Björk). Non dobbiamo inoltre dimenticare le vocals dell’ospite d’onore Sinead O’Connor in “Why Don’t You Love Me Anymore”, senza poi tacere di “Sensitive New Age Guy”, che sembra uscita dalla penna di Giorgio Moroder (quasi impossibile non riscontrare quei ritmi nella struttura stessa del brano). È inteso che se ci azzardiamo a circoscrivere la musica del barbuto uomo di Denver ne usciamo fuori tutti un po’ malconci, e rischiamo di non godere abbastanza. Lui, incurante di tutto, tira per la sua strada e dimostra senza dietrologie di sorta che gli piacciono anche i ritmi, il synth-pop di una volta, la scrittura nobile di gente come Hall & Oates, Donald Fagen, Sparks (quel sax in “Ernest Borgnine” è George Michael mescolato al cinematic-drama à la Kavinsky). Ne ho già disseminati troppi di indizi e nomi, e non va bene, si rischia di perdere il senso dell’operazione stessa, cioè quello di provare a reinterpretare i classici tre/quattro minuti partendo dalle proprie passioni e/o idiosincrasie. Questo conta e questo mi basta, perché – se ancora non si fosse capito – Pale Green Ghosts è un signor album. Punto.

Tracklist

01. Pale Green Ghosts
02. Black Belt
03. GMF
04. Vietnam
05. It Doesn’t Matter To Him
06. Why Don’t You Love Me Anymore
07. You Dont Have To
08. Sensitive New Age Guy
09. Ernest Borgnine
10. I Hate This Town
11. Glacier