ELECTRIC WIZARD, Time To Die
La storia finora…
È certamente difficile, o forse impossibile, riprodurre l’impatto che hanno avuto in tempi diversi Come My Fanatics, Dopethrone e Witchcult Today, sui riff dei quali gli Electric Wizard hanno costruito – e tuttora basano – il loro inconfondibile stile doom psichedelico, demoniaco e nichilista. Però trovo che con il nuovo album, Time To Die, siano stati capaci di rinverdirlo, dato che stava diventando un po’ troppo ripetitivo. Black Masses, infatti, uscito nel 2010 e dedicato a stregoneria e riti satanici, pur di qualità elevata, aveva sfruttato al massimo, fino alla saturazione, arrangiamenti e atmosfere a cavallo tra occultismo ed estasi lisergica. D’altro canto, distorsione e “downtuning” estremi, strapotere degli amplificatori, riverbero e vibrazioni telluriche non sono mai mancati a questa band, come sa chi l’ha vista e sentita “in pancia” dal vivo.
Durante questi quattro anni ci sono state un po’ di vicissitudini, tra cui quella forse più problematica è stata il distacco, per vie legali, dall’etichetta originaria (Rise Above Records) e il conseguente avvio di una propria, anche se va precisato che il nuovo disco è distribuito in tutto il mondo dalla Spinefarm Records/Universal. Time To Die, poi, è nato da una line-up diversa da quella di Black Masses, ossia senza l’iper-tatuato Tas al basso, strumento preso pro tempore dallo stesso Jus Oborn (con lo pseudonimo di Count Orloff), e soprattutto di nuovo (ma se n’è già andato) col batterista Mark Greening, co-fondatore della band vent’anni fa. Nella formazione attuale, invece, figura il giovane bassista americano Clayton Burgess, ossia il Claythanas fondatore dei Satan’s Satyrs, band fenomeno di “doom-punk” (o “dungeon rock”), aggressiva e sfrontata, che sembra catapultata qui dagli anni Sessanta/Settanta da una macchina del tempo. Clayton è forse il bassista adeguato per interpretare lo spirito attuale degli Electric Wizard e di Time To Die, che pare una full-immersion nel brodo primordiale della musica pesante, nel blues, nella psichedelia arcaica e – tanto – nel garage rock e nel proto-metal. Come sempre, le fonti d’ispirazione degli inglesi pescano nel torbido delle brughiere, nel buio delle cripte e nell’immaginario orrorifico e deviato di b-movies d’antan, un’autentica passione che ha fatto sì che il Roadburn chiedesse a Oborn di curare una rassegna cinematografica a tema all’interno dell’edizione 2013 del festival.
L’album
Il rumore dell’acqua che scorre e il gracchiare lontano di un uccello che aprono “Incense For The Damned” non sono poi sinistri quanto il famoso temporale di “Black Sabbath”, ma basta poco per far entrare l’ascoltatore nel vivo di una storia maledetta e dall’esito forse tragico, il cui flashback si chiuderà dopo quasi 66 minuti, ancora, con l’acqua che scorre e con un finale aperto. Questa storia viene abbozzata in nove brani, di cui sei (“Incense For The Damned”, “Time To Die”, “I Am Nothing”, “Funeral Of Your Mind”, “We Love The Dead” e “Lucifer’s Slaves”) parecchio lunghi, fino ad oltre 11 minuti, e tre (“Destroy Those Who Love God”, “SadioWitch” e l’outro “Saturn Dethroned”) brevi e in parte strumentali. Gli Electric Wizard sembrano giocare coi contrasti in questo disco: quei rumori tutto sommato pacifici, o al massimo malinconici, dei quali abbiamo appena parlato, sono presto resi plumbei da un efficacissimo inserto di dark psichedelia, da urla orribili e campionamenti (gli stessi usati in passato dalla band) che parlano del legame patologico tra crimini efferati, droghe, satanismo e invariabilmente musica rock. In pratica il catalogo dei temi toccati dalla produzione discografica dei Wizard. Presto entrano di prepotenza i riff pachidermici, riverberati e ossessivi tipici della band. Già sentiti? Sì, tante volte, specie negli ultimi due album, ma sono un marchio, tra l’altro molto imitato. Qui, però, diventano parte integrante di un mélange che va oltre la storia del gruppo e si ramifica più di prima, raggiungendo generi diversi. Come tutti gli altri episodi lunghi, anche “Incense For The Damned” vede l’ipnotica melodia portante venir progressivamente distorta, moltiplicata e polverizzata da effetti space-psichedelici che creano echi da più direzioni, come onde d’acqua che interferiscono tra loro. Alla fine il suono, nel suo disperdersi caotico, diventa quindi letteralmente “liquido”, o quasi volatile, ma pronto per condensarsi, sempre più viscoso e avvelenato, ogni volta che attacca il brano successivo.
La suite “I Am Nothing” dura più di tutte le altre ed è forse anche la più malvagia dell’album: il riff principale, a suo modo un manifesto di nichilismo, è vibrazione incessante, ultra-distorta, funerea e marziale, che suona come una dichiarazione di guerra all’umanità. Così, mentre il rombo di chitarre e batteria a un certo punto comincia a frammentarsi e a dilatarsi in una cacofonia incandescente creata dal riverbero elettrico e dal bombardamento della batteria di Mark Greening, la voce deformata Jus Oborn diventa acida e quasi strascicata, come se lui fosse in pieno delirio chimico. In questo stato, Jus proclama “la banalità del male”, quasi assaporando in modo sadico l’amoralità di ciò che dice: “Non sono niente, non sento niente, tu non sei niente, per me, niente, niente… E non sento niente mentre ti uccido”.
“We Love The Dead”, pure pesantissima, ha un’impostazione diversa: si muove piano e alterna i refrain cadenzati e languidi del basso con le esplosioni assordanti e rabbiose delle chitarre e della batteria, mentre Jus si produce in un canto lento sempre più corrosivo e “psichedelico/garage”, molto efficace nel trasmettere la propria passione morbosa per ciò che è morto, conseguenza del rifiuto del mondo dei vivi, che lui vede come una minaccia. In Time To Die, per inciso, la voce di Jus si percepisce più marcatamente rispetto, ad esempio, a Black Masses, dov’era soffocata dal frastuono di basso e chitarre. È ben più urticante di come la possiamo sentire in – per dirne una – “Venus In Furs” e sembra spesso più aggressiva, sguaiata e sfrontata rispetto al solito, molto simile per impostazione proprio a quella di Clayton Burgess nei Satan’s Satyrs e in generale vicina al proto-punk rock.
In quest’album così nero c’è parecchio spazio anche per la melodia. La più lugubre è senz’altro quella dark psichedelica che la band usa non solo per legare i brani e la storia dell’album, ma anche per riallacciarsi ai precedenti dischi (Witchcult Today): parlo di quell’arcaico organo Hammond da pelle d’oca che si sente sia nell’intro di “Incense For The Damned”, sia in “Destroy Those Who Love God”, sia nella conclusiva “Saturn Dethroned”, a cavallo tra Jacula, Pink Floyd era Barrett e Doors. Non per niente, come già accennavo, questa melodia malata e occulta è sempre abbinata a campionamenti che parlano di satanisti assassini che ascoltano musica blasfema. Poi ci sono anche dosi di groove un po’ in tutti i brani, sorprendenti anche se non una novità tout court. La ballata “Time To Die”, ad esempio, è forse la più melodica, un concentrato di blues rock settantiano intriso di malinconia. È un pezzo molto orecchiabile almeno per quanto riguarda le chitarre, che elaborano i riff intrecciandosi con quella naturalezza che ci si aspetta da un’improvvisazione messa in atto da gente che suona insieme da una vita. Dietro queste armonie, però, a tenere altissima la tensione, ci sono la batteria implacabile dai ritmi ossessivi e tribali di Mark Greening e la voce straziata di Jus. “Sadiowitch”, uscita come singolo, è molto accattivante, doom wizardiano prototipico, ibridato con attitudine “garage” quanto a disinvoltura e modo di cantare. L’apoteosi del groove si apprezza in brani come “Funeral Of Your Mind” e “Lucifer’s Slaves”: il primo, molto dinamico, è heavy metal tirato a cui si abbina la sfrontatezza di Oborn (qui ancora di più in fase Satan’s Satyrs), destinato a polverizzarsi in dissonanze stellari; “Lucifer’s Slaves”, invece, è un grandioso omaggio al proto-rock, al proto-metal e al blues delle paludi, che intreccia sia riff wizardiani accelerati, sia altri smaccatamente sabbathiani, e nella sua prima metà diventa una bestia heavy doom rock infettiva, in cui il “doom del Dorset” si trasforma in doom d’Oltreoceano targato Saint Vitus e Pentagram. Bellissimo il rallentamento “funeral” nel cuore di questo brano, che successivamente ri-accelera con una spettacolare reprise del riff portante per frammentarsi presto in giravolte retro fuzz rock indiavolate degne dei migliori Grand Funk e dei Wo Fat di Bayou Juju. Ma è (ancora) la psichedelia lugubre e malata di “Saturn Dethroned” a chiudere l’album, insieme all’acqua e a una “sentenza”, già nota ai cultori degli Electric Wizard, che magari sta per realizzarsi: per affrontare le devianze di cui è popolata la discografia degli Electric Wizard ci sono due opzioni, o manicomio o morte.
Il cerchio si chiude, forse…
Tracklist
01. Incense For The Damned
02. Time To Die
03. I Am Nothing
04. Destroy Those Who Love God
05. Funeral of Your Mind
06. We Love The Dead
07. SadioWitch
08. Lucifer’s Slaves
09. Saturn Dethroned