CANNIBAL MOVIE, Donato Epiro e Gaspare “Lemming” Sammartano
Immaginate per un istante questa scena: un vecchio organo e un set di batteria, chiusi in un locale buio, che vi spaccano i timpani alla loro maniera. Provate anche ad inserire questa musica selvaggia nei vostri pensieri di fruitori impegnati a ricordare un tempo passato (quello delle migliori colonne sonore della tradizione italiana). Vi accorgerete che il risultato è una mutazione improvvisa, che tanto somiglia a una nuova mostruosa creatura, bagnata dalle acque in parte inquinate dai metalli pesanti del golfo di Taranto. Queste le strane sensazioni che ci vengono in mente quando ascoltiamo la musica dei Cannibal Movie, forse uno dei maggiori esempi di proposta contemporanea che non dimentica affatto le proprie radici ma, anzi, le reinterpreta e le fa rinascere in una maniera sinceramente parecchio originale. Il nuovo noise dell’era della globalizzazione e ai tempi della crisi? No, ci mancherebbe, non siamo veggenti e tantomeno ci interessa pontificare su poetiche spicciole del recente movimento autorale tanto in voga in Italia (non a caso le parole sono del tutto assenti nei dischi di Cannibal Movie), solo ci interessa mettere l’accento su un fatto: il lavoro di Donato Epiro e Gaspare “Lemming” Sammartano merita la vostra attenzione anche per le ragioni sopra elencate, punto. Fatevi un’idea più circoscritta leggendo la lunga intervista che ci hanno concesso.
Avete fatto un lavoro enorme con l’ultimo Avorio, grafica fumettistica e tribale di Virginia Genta (Jooklo Duo) compresa. Com’è nato e cosa lo ha ispirato?
Donato Epiro e Gaspare “Lemming” Sammartano: Il disco è nato in maniera imprevista; ci conosciamo da tempo e abbiamo consumato diverse serate parlando del tipo di suono che avevamo in testa, e di tutto quello che ci sarebbe piaciuto creare attorno a un progetto e che avremmo voluto sviluppare (dai video alle grafiche e ai concerti) fino alla maniera stessa in cui ci saremmo dovuti muovere negli aspetti più pratici di quella che è la vita di un gruppo.
Siamo sempre stati affascinati dalla scena noise americana degli ultimi dieci anni, per la proposta musicale ovviamente, ma soprattutto per il tipo di approccio: marcio, istintivo, fatto di concerti in posti improvvisati, strumenti di fortuna, tanto rumore e poche paranoie. Aggiungi poi che siamo completamente immersi in tutta quella nuova ondata di musiche scoppiate e sotterranee che ruota attorno alle centinaia di più o meno piccole e durature etichette (Not Not Fun, Stunned, Foxglove, Ruralfaune, Blackest Rainbow, giusto per citare quelle a cui siamo più affezionati) che nel corso di nemmeno un decennio hanno portato a galla cose veramente incredibili, e gruppi e musicisti (e non-musicisti, pensa a tutto il giro dei blog e delle fanzine) con cui abbiamo nel tempo stretto rapporti e scambiato idee; ti sarà quindi più o meno chiaro lo spirito con cui siamo partiti.
Se nell’atteggiamento ci ha influenzato quello che accade soprattutto oltreoceano, la volontà di creare una nostra precisa identità ci ha spinti invece ad approfondire quello che, inconsapevolmente o meno, abbiamo assimilato dalla nostra tradizione.
Credo sia evidente che non abbiamo alcuna intenzione di rielaborare qualcosa di già fatto, quanto piuttosto portare avanti un discorso in continuità con quella che è stata la nostra più illuminata e originale produzione, che, lontana da qualsiasi atteggiamento provinciale ed emulativo, e senza alcuna soggezione verso l’estero, ha saputo toccare vette meravigliose negli ambiti musicali più diversi, dalle colonne sonore alla psichedelia, fino alle musiche di ricerca e alla disco, per diventare, in alcuni casi, essa stessa punto di riferimento.
Ecco, sognavamo qualcosa di simile, e dato che siamo tipi che non se ne stanno con le mani in mano a fantasticare, lo abbiamo fatto: dalle nostre prime tre prove, riprese con un panoramico piazzato a centro sala, è nato Avorio.
Facciamo un salto temporale e torniamo al lavoro solista di Donato: “Le Tigri Dell’Ira” (in Sounding The Sun, 2009) è un pezzo che ha un’animalità compressa (… quelle percussioni…). Da dove proviene tanta potenza?
Donato Epiro: Non lo so con precisione. Ha stupito anche me quel disco, nel senso che è stato un taglio netto rispetto a tutto quello che avevo registrato in precedenza. Avevo voglia di fare qualcosa in cui il ritmo fosse centrale, e che fosse caotico, colorato, e sprigionasse una qualche forza evocativa; non avendo comunque idea di come il lavoro si sarebbe sviluppato, non ho fatto altro che assecondare il mio istinto.
Da Sounding The Sun in poi ho preso una certa direzione; i Cannibal Movie sono sicuramente evoluzione e parte di questo percorso.
Qual è stata la molla che ha vi ha permesso di esprimere tanta brutalità? Si dice in giro che i vostri live sono particolarmente infuocati.
In realtà, nelle intenzioni almeno, siamo partiti con i piedi di velluto, ci siamo poi fatti prendere un po’ la mano. Brutale, però, mi sembra esagerato: a noi sembra musica solare, sognante, minacciosa forse, in alcuni momenti anche molto dolce. Ad ogni modo, stiamo ancora cercando di capire fino a dove riusciremo a spingerci con i mezzi a nostra disposizione, il che non vuol dire necessariamente che i volumi continueranno ad alzarsi. Dal vivo cerchiamo di avere un certo impatto, ma siamo sempre molto attenti alle dinamiche, in maniera da mantenere costante, durante tutto il set, una certa tensione ed attenzione, tanto nell’ascoltatore quanto in noi stessi.
Quasi scontato ribadire come il cinema italiano degli anni ‘60/’70 sia ormai diventato una fonte di ispirazione importante per la scena underground (ne parlavamo tempo fa anche con Valerio Mattioli di Heroin In Tahiti). Vi chiedo come nasce questa passione cinematografica, e quali sono nello specifico i filoni/film che più vi hanno colpito.
Ovviamente ci piace il cinema e amiamo in particolare certo cinema italiano di genere, non ne siamo però, come qualcuno potrebbe immaginare, grandissimi cultori o collezionisti incalliti.
Il riferimento al filone dei cannibal movie ha diverse chiavi di lettura e solo quella più superficiale è legata all’immaginario, esotico ed orrorifico, dentro cui facciamo muovere i nostri brani. L’aspetto più profondo riguarda, come dicevamo poco sopra, il legame con la nostra cultura: il nostro è un omaggio ma anche un manifesto di quelle che sono le nostre intenzioni. Abbiamo cercato di riprodurre il senso di avventura che si respira in quei film, ricercandolo soprattutto nel modo in cui ci siamo avvicinati alla musica, a strumenti che non conoscevamo, a un suono che, nel suo essere essenziale, era per noi tutto da esplorare.
Cosa vi attrae invece in ambito musicale? Cosa ascoltate in questo periodo e cosa potreste suggerire ai nostri lettori?
Inutile dirti che ascoltiamo veramente di tutto, dalla roba più mainstream fino all’underground più underground delle uscite in cd-r, cassette e vinili, che continuiamo a comprare in maniera compulsiva e da cui siamo ormai praticamente sommersi.
A seconda del periodo, ci appassioniamo a cose sempre diverse; almeno per quest’anno, però, durante i lunghi tragitti in macchina, i favoriti sono stati Miles Davis, Herbie Hancock, Fela Kuti, Brian Eno, Death Grips, Sun Araw, Ennio Morricone, Jon Hassel, Terry Riley, Oneida, Lee “Scratch” Perry. Seguiamo poi con grandissima curiosità tutto quello che accade in Italia, questi sono gli ultimi dischi acquistati o gli ultimi ascolti interessanti: La Piramide di Sangue, Trans Upper Egypt, Hiss, Stargate, Dracula Lewis, Primitive Art.
Chiedo a Donato di come sia venuto in contatto col folle mondo Snowdonia; deve essere stata una vera e propria palestra, visto che hai suonato con i Maisie.
Donato Epiro: Ho conosciuto Cinzia della Snowdonia alla prima edizione del Tago Fest; le lasciai un disco con alcuni miei primi esperimenti flauto/elettronica; le piacquero e da allora siamo rimasti sempre in contatto. Con i Maisie ho cominciato registrando piccoli interventi su alcuni pezzi per arrivare poi a curare interi arrangiamenti. È impegnativo ma molto stimolante lavorare con un metodo completamente diverso dal mio, più ordinato e rigoroso, e sono sempre molto interessato ai diversi aspetti della produzione musicale.
Parlateci di Sound Of Cobra e Sturmundrugs Records. Chiedo a Gaspare della sua Lemming Records, e delle eventuali nuove release in uscita.
La Sound Of Cobra è l’etichetta gestita da Ricky (batterista degli In Zaire), che ha prodotto il nostro album nelle sue due edizioni, cassetta e ristampa in vinile; ha appena un anno di vita ma vanta già un catalogo di tutto rispetto (Orfanado, La Otracina, Expo ’70, La Piramide Di Sangue…); Avorio è stata la sua prima uscita, è stato quindi un doppio debutto.
La Lemming Records ha invece ormai quasi quattro anni, e continua nel suo intento di convogliare, soprattutto nel nostro territorio, gli sforzi di band, progetti, persone ed altre etichette della penisola.
La prossima uscita (prevista in settembre) sarà il primo disco dei FulkAnelli, nuovo progetto del potentissimo drummer Paolo Mongardi (Zeus!, Ronin, Fuzz Orchestra) e del maestro delle sei corde Cristian Naldi.
La Sturmundrugs, per diverse ragioni, è invece al momento ferma.
Non vi nascondo che m’hanno sempre incuriosito un paio di cose di voi: la provenienza geografica e quell’organo, dove diavolo l’avete trovato?
Taranto è una città dura, con diverse facce e tantissime contraddizioni. Ma ci piace, è un po’ la nostra Detroit, anche se ultimamente ci divertiamo e dire in giro che è la nuova Providence. L’organo l’abbiamo recuperato qui in città per pochi euro. È un Eko Tiger del ’71.
È evidente che ci sono nel vostro dna particolari propensioni alla creazione, da quelle parti provengono artisti ed etichette del calibro di Valerio Cosi, Fabio Orsi, Zweisamkeit o la Lepers Records, ma operavano tempo fa anche la barese Minus Habens e la AFK Records, solo per citarne alcuni. Esiste un ingrediente o un aspetto particolare di quei luoghi che potrebbe avere determinato questa attitudine creativa?
Può darsi, ma spesso a innescare certe scintille sono più eventi singoli e casuali come l’ascolto di un determinato disco, un particolare incontro o un concerto. Tutte opportunità che, ovviamente, in un ambiente culturalmente più vivo ed attivo potrebbero presentarsi ed essere colte con più facilità. Siamo forse stati solo un po’ più attenti e recettivi (o, per forza di cose, lo siamo diventati).
Noi continuiamo a relazionarci a tutto quello che abbiamo intorno, anche ai lati più sgradevoli, in maniera positiva, costruttiva e, nelle nostre possibilità, cerchiamo di essere noi stessi elementi catalizzatori per un qualche tipo miglioramento.
Di recente avete suonato con Alexander Tucker, com’è andata? Che impressione avete avuto di lui e cosa vi portate dietro da questa esperienza?
Ogni volta che suoniamo a Roma per noi è una festa, ritroviamo tantissimi amici e ci divertiamo da matti. Quindi sì, bello il concerto di Tucker ma insuperabile il set di Trapcoustic, la cena con Stefano “Demented” e Grip Casino, il pranzo con gli Hiroshima e gli X-Mary e la lunga discussione, non proprio lucidissima, in cui abbiamo cercato di convincere Mattioli degli Heroin in Tahiti del fatto che Taranto fosse ormai la nuova Providence.
A voi i saluti finali per i nostri lettori…
Grazie dell’attenzione, e ricordate che è meglio riposare in pace nel caldo corpo di un amico invece che nella fredda terra.