BLACKLIST UNION, Tony West

Tony West

Vorrei presentarvi una delle mie band hard rock preferite di oggi attraverso le parole tratte dal romanzo del ventesimo secolo che più venero in assoluto, scritto da John Fante e intitolato “Chiedi alla polvere”: Tutto ciò che di buono c’era nel mio cuore fremette al momento, tutto quello che avevo desiderato nel profondo, oscuro senso del mio esistere. Mi si parò davanti tutta la muta placidità senza fine della natura, indifferente nei confronti della grande città; il deserto era lì, sotto le strade, per i viottoli, ad aspettare che la città morisse, per ricoprirla ancora una volta di sabbia senza tempo. Proprio in quel momento sovvenne una terrificante comprensione di cosa questo stesse a significare, nonché del destino patetico dell’uomo. Il deserto è sempre stato lì, appartato, un paziente animale bianco, in attesa che l’umanità perisca, che le civiltà vacillino, per poi far sì che tutto diventi tenebra. L’intero male del mondo non mi apparve più come tale, ma inevitabile e buono… Tutto il suono suggestivo di quella tenebra che incombe sulla città degli angeli giace in agguato nei meandri della musica di Tony West. Con la sua impressionante umiltà e la sua franchezza, questo ragazzo ha tutte le credenziali per essere considerato un vero genio, per non parlare dello spessore del suo profilo artistico e della coerenza fra vita, morte e tutto ciò che c’è di vividamente creativo nel mezzo. Come ho detto anche a lui, avevo voluto molto quest’intervista solo per essere finalmente il testimone privilegiato del fiorire di qualcuno come artista, un fiorire cupo proprio lì, nella distesa arida di quel deserto. Adesso anche voi potrete assistere.

Eccoci, Tony. Per prima cosa, mi piacerebbe avere qualche piccola delucidazione riguardo il tuo ultimo album, Til Death Do Us Part. Prima di aprire la custodia del cd ho notato, sul retrocopertina, la scritta “Con la partecipazione di Tony West”. Dopo due album con il moniker Blacklist Union, che è ancora ben in vista, che è successo, nel suo insieme, alla band? Senti la voglia di andare avanti come artista solista?

Tony West: Ebbene, sembra proprio che Hollywood sia piena di opportunisti, accoltellatori e gente che ti sputtana. Il cameratismo non esiste più da queste parti. Sono ben lontani i tempi in cui un gruppo di amici aveva una band da condividere e con cui cercare di conquistare il mondo. Come leader e fondatore di questa band ne ho passate davvero tante, amico. Ho dovuto, inoltre, avere a che fare con ogni tipo d’insinuazione e di disgrazia che potesse capitare a una band, con il rischio, tipico di altre centinaia di casi, che il tutto potesse andare a rotoli grazie ai soliti individui: ex-membri, manager… Per non parlare delle varie situazioni di ammutinamento, sfruttamento e dei dissapori creati ad arte per opportunismo. Ti faccio un paio di esempi pratici: un manager mi ha fregato per un ammontare di 45.000 dollari; un componente dei Blacklist Union ha lasciato la band pochi giorni dopo l’uscita dell’album di debutto, After The Mourning. Potrei andare avanti per ore a parlarti di questo tipo di puttanate. Dunque, ho dovuto trascinare avanti la band da solo, sia finanziariamente sia emotivamente, sobbarcandomi le spese di registrazione, pubblicità e tutto il resto. Direi che a questo punto sono io la band, sebbene sia estremamente soddisfatto dell’attuale line-up. Guarda caso non ci sono lievitazioni di ego, né impedimenti di natura tossica e nessuna ragazza/moglie sul modello Yoko Ono nei paraggi. I Blacklist Union sono la mia vita. Punto. Il secondo disco l’ho chiamato Breaking Bread With The Devil per una ragione. Questo titolo, appunto, è la metafora di quando inviti le persone sbagliate nella tua vita e nel tuo cuore. L’ho fatto troppe volte e sono stato troppo ingenuo nel lasciare che certe persone si insinuassero nel mio giro più privato. Hollywood non è un luogo di plastica, è la gente che ci vive che lo rende tale. È uno schifo ma, come chiunque altro, mi devo giocare le carte che mi sono toccate. Qui, inoltre, non c’è una vera e propria scena. Se avessi la possibilità di trasferirmi via da qui, lo farei in un secondo.

Jon E. Love, mitico chitarrista dei Love/Hate, è menzionato tra i credits del disco. Come sei entrato in contatto con lui? È un fan dei Blacklist Union?

Conosco Jon sin da quando ero un teenager e sono sempre stato un fan dei Love/Hate. Penso che sia un gran chitarrista.

Il titolo del nuovo disco è, ancora una volta, emblematico. C’è qualcosa di ancor più meravigliosamente doloroso e crepuscolare che nei due lavori precedenti, forse dovuto alla perdita di una persona a te molto cara, Michael Christopher Starr. Condivideresti con chi ci sta leggendo qualche informazione in più su Michael, su chi era in realtà e quanto fosse importante per te?

Michael è stato il bassista degli Alice In Chains. Siamo stati compagni di appartamento e amici per la pelle sin dal primo momento in cui ci siamo conosciuti e ne abbiamo combinate di cotte e di crude insieme. La nostra amicizia è durata ben diciassette anni. Lui era dieci anni più anziano di me, quindi provavo anche un senso di benevola venerazione nei suoi riguardi, come fosse un fratello maggiore. “Blown Away”, il terzo pezzo della tracklist di Til Death Do Us Part, è il brano con cui ho onorato la sua persona e il suo ricordo. Non è un segreto che sia io sia Michael avessimo grossi problemi di droga e facessimo dentro e fuori dalle cliniche di riabilitazione ma, per quanto mi riguarda, sono passati molti anni dai tempi in cui mi bucavo o prendevo roba pesante. Ci fu poi un periodo in cui ero dilaniato dal metadone prescrittomi da un medico davvero in gamba, andai fuori di testa, mi gonfiai come un pallone aerostatico, mi rasai a zero e aggiunsi diverse altre stronzate alla mia vita. Michael morì proprio in quel periodo, e da allora mi promisi di darci un taglio con la droga, cosa che ho fatto finora, e intendo perseverare. Quello fu anche il momento in cui capii chi erano i miei veri amici. Grazie a Dio, ritrovai il senno. C’è un sacco di gente che non ne esce viva da quel tipo di contro-terapia, dato che si tenta spesso il suicidio. Mostro sempre apertamente e, se ci vuole, anche brutalmente quello che provo, non sono uno che fa giri di parole o si fa passare per quello che non è. Il titolo, Finché Morte Ci Separi, è anche una frase che mi permette di avere sempre ben presente che siamo su questa terra solo per un breve periodo e che, appunto per questo, si deve essere sinceri con se stessi nel mentre si è qui. Non ingannare mai nessuno e, soprattutto, non ingannare mai te stesso, a meno che tu non voglia tornare ancora una volta sul pianeta Terra e rivisitarlo di nuovo.

Tony West

Gradirei evitare il rischio di risultare troppo sfacciato e invadere la tua vita privata, ma sono comunque a conoscenza di un’altra tragica perdita che ha caratterizzato la tua esistenza. Non è umanamente possibile ignorare la presenza di un tangibile fantasma che urla dai meandri della miglior parte del tuo songwriting. Attraverso gli anni, come ti sei quotidianamente destreggiato tra la coesistenza percettiva con una donna che era così importante per te e un adorabile figlioletto da tirare su da solo?

A dire il vero sono due le donne che ci hanno lasciato. La prima è Bianca Halstead, bassista del gruppo Betty Blowtorch, a cui dedicammo il nostro primo album, After The Mourning. Io e Bianca avemmo una storia d’amore breve e intensa che finì in tragedia, come la sua stessa vita. La seconda, Tracie Lea Cochran, era stata la mia prima moglie. Morì il 27 Aprile 2006 in seguito a un tumore fulminante, dieci giorni esatti dopo la pubblicazione di After The Mourning. Queste due donne hanno rappresentato gli amori della mia vita e le persone da cui ho più imparato. Unico rimpianto: avrei voluto rendermene conto quando erano ancora in vita. Ci sono molte mie canzoni che sono state ispirate da queste due donne, una in particolare è “Sixty Five Steps Away”, che è appunto la distanza approssimativa fra le loro due tombe nell’Hollywood Forever Cemetery. Nella vita le persone muoiono. Fui assolutamente segnato e traumatizzato dalle loro morti, ma allo stesso tempo benedetto dalle loro vite. Tutto quello che ho fatto da allora è stato tirare avanti. Affinché potessi sopravvivere io stesso, ho dovuto farlo. Riguardo la madre di mio figlio, lei si chiama Erin Hamilton ed è viva e vegeta. È una brava persona.

Usando una metafora, la tua band sembra il più scuro, torbido e impressionante monumento hard rock di Los Angeles, eretto sul cimitero di una decade di auto-indulgente sleaze/pop metal come furono gli anni ‘80. C’è un qualcosa di “noir”, enigmatico, cupo e contorto nel tuo rock n’roll, come in un romanzo di James Ellroy. Per di più, il modo in cui la tua musica descrive la tua visione artistica del mondo, simula profondamente la prosa caustica di un John Fante. Dove trovi tutta quella brillante ispirazione? E cosa provi nel vedere una band, seppur rispettabile, come gli Steel Panther aprire per Mötley Crüe e Def Leppard?

Negli anni Ottanta ero un ragazzino e avevo un paio di zii che erano dei musicofili incalliti. Mio zio Jimmy mi introdusse ai vari Bowie, Iggy e Ramones, mentre l’altro mio zio era più sul versante AC/DC, Van Halen, Aerosmith. A dirti la verità, non sono mai stato un fan di quel tipo di heavy metal a base di trucco e pose plastiche, piuttosto andavo matto per il gotico. Il mio primo amore fu Siouxsie Sioux, per renderti l’idea. Mi piacevano anche i Mötley Crüe, anche se, quando vivi per tanto tempo a Hollywood, come nel mio caso, nel momento in cui conosci realmente i tuoi idoli, tutta la tua devozione crolla. Gli Steel Panther sono una band fantastica. I Blacklist Union sono una band più incentrata sulla vita reale dal punto di vista della scrittura. Ho vissuto attraverso ognuna delle mie canzoni, che si basano sul dolore, la gioia e la viva esperienza personale. Amo scrivere.

Tra l’altro, so che sei un autentico newyorkese di origini italiane. Come ha fatto la tua cazzuta attitudine East Coast a conciliarsi con la scena di Hollywood all’inizio? Ti sei sentito subito a tuo agio a L.A.?

A Hollywood sono tutti dei cazzoni pieni di sé. Diciamo che non è un luogo che mi si addice molto ed effettivamente questo disagio ha gravato non poco sulla mia persona. Una caratteristica degli individui di questa città è che non amano molto quando hai da ridire sulle loro cagate, cosa in cui io sono specializzato. Una volta, ad esempio, dissi a questa nota promoter locale di andare a farsi fottere. Di rimando, lei scrisse delle malignità su delle mail firmate con il mio nome mandate a tutti i club di Los Angeles. Ora, lei fa ancora la promoter in questa città, è una specie di troll intossicante che non fa altro che politica spicciola, la stessa con cui ogni band qui deve avere a che fare quotidianamente. La cosa triste è che, mentre io ne riconosco l’anomalia, tutti continuano a baciarle il culo e a pensare che lei potrebbe fare qualcosa per favorire le loro carriere. I Guns N’Roses scrissero un brano in riferimento a questo tema, si chiama “Double Talking Jive”. “Fanculo quella grassa troia!” è come si chiama la mia versione.

Tony West

Tony, quali sono state le tue primissime influenze e i primitivi passi da musicista rock?

Punk rock in generale, poi Bowie, Ramones, Aerosmith, Stone Temple Pilots, Alice In Chains, The Cult, Black Sabbath, solo per citarne qualcuna. In quanto a influenze vocali, probabilmente, Andrew Wood dei Mother Love Bone e Perry Farrell dei Jane’s Addiction sono quelle per me più grandi. Il mio primo passo da musicista è stato quello di imparare il mio mestiere e acquisire maggior sicurezza in quel che facevo. A dispetto di chi mi ha voluto male, ho sempre insistito per migliorarmi e alla fine ci sono riuscito.

Ho sempre visto di buon occhio il modo in cui interagisci con i tuoi amici/fan sui social network rendendoli partecipi dei tuoi pensieri, delle tue opinioni, delle tue scelte e, in ultimo ma non di meno, della tua musica. Sembra proprio che le pubbliche relazioni non siano solo un artificio nel tuo caso, ma che tu rispetti sinceramente la devozione delle persone nei confronti della tua storia e della tua musica. Al contrario, molte ex-pseudo-starlette del rock business fingono miseramente e perdono il contatto con la bontà della realtà. Che ne pensi?

Secondo me, la chiave per il successo consiste nel rimanere se stessi e nel restare con i piedi per terra. Se Steven Tyler è modesto e approcciabile, vuol dire che non c’è alcun motivo valido per essere degli stronzi. Specialmente nei riguardi dei tuoi fan.

A proposito del restare con i piedi per terra, hai in programma di tornare on the road per promuovere il nuovo album in un futuro prossimo?

Sì. Quest’estate saremo in Europa. Tutto ciò che vogliamo in questo momento è darci da fare per il prossimo tour.

Ho sempre avuto la convinzione che la potenza di uno straordinario semianonimato conduca al perfetto status di leggenda, mentre la pubblica popolarità non porti altro che a una piatta biografia. A quale sezione del libro della storia del rock n’roll Tony West vorrebbe appartenere e per cosa essere ricordato?

Mi piacerebbe essere ricordato per essere stato coerente con la mia visione e per non aver compromesso l’integrità della mia arte.