BLACK SABBATH, 13
Trentacinque anni dall’ultimo lavoro in studio insieme, una miriade di pettegolezzi, millantati riavvicinamenti, cambi al microfono, separazioni, reunion annunciate, in più la morte di Dio, la malattia di Iommi, l’estromissione di Ward. Inutile dire che il nuovo album dei Black Sabbath con Ozzy ha saputo creare aspettative, voci, polemiche e, in generale, un’attenzione cui ben pochi gruppi potevano ambire, così come appare superfluo soffermarsi ancora sull’importanza e sul ruolo che la band ha giocato all’interno del panorama musicale di matrice hard e heavy nelle sue varianti più oscure. Se siete lettori di The New Noise dovreste conoscere alla perfezione tutti i classici e avere in casa almeno buona metà della discografia targata Black Sabbath. Cosa resta, allora, al netto di tutto questo clamore? Cos’era lecito aspettarsi che non fosse un solido karaoke di riff sabbathiani, citazioni più o meno riuscite di se stessi, richiami a un enorme passato e tanta parte giocata dall’effetto nostalgia? Piuttosto, è un bene che i Black Sabbath abbiano rinunciato a fare i giovincelli e non si siano reinventati chissà come, va benissimo che abbiano deciso di giocarsi le ultime carte di un “brand” che loro stessi hanno inventato e reso immortale, con tanto di clonazioni e qualche colpo di classe (mestiere?) che solo loro potevano tirare fuori. Mancano le atmosfere e la tensione, l’ombra cupa che aleggiava nei Settanta, ma sarebbe stato finanche stupido aspettarsele, così com’era un po’ ingenuo pensare di riprovare i brividi di una volta. Eppure, come sempre c’è un eppure: 13 è un buon disco con delle belle canzoni e una buona tenuta, non all’altezza degli altri, magari in qualche punto anche un po’ fiacco, ma di sicuro non una “sola” o un ritorno imbarazzante. Perché quest’album contiene vari colpi a segno come qualche filler, mai però una vera e propria vergogna da skippare e dimenticare: è un lavoro pacificato e rilassato in cui il manico gioca la parte del leone, ma che non viene a noia e che si può rimettere su più volte senza sentirsi a disagio. È un buon saluto, se saluto deve essere considerato, un bel modo per ritrovarsi tutti insieme e raccontarsi vecchie storie. Il trucco è metterlo su e goderselo consapevoli del tempo trascorso e degli acciacchi, dell’effetto carrozzone e della benevola furbizia di chi ormai campa sugli allori (va detto: ben potendo permetterselo). Tutto il resto sinceramente è chiacchiericcio inutile e persino controproducente, puntigliose dissertazioni (almeno a giudizio di chi scrive) un po’ gratuite.
Tracklist
01. End Of The Beginning
02. God Is Dead?
03. Loner
04. Zeitgeist
05. Age of Reason
06. Live Forever
07. Damaged Soul
08. Dear Father